Musica all’incrocio dei venti. I migliori dischi del 2023

James Blake, Martina Bertoni e gli Slowdive compongono il podio. Prison di Dave Okumu la canzone più bella.

30 Dicembre 2023

Ci eravamo lasciati alla fine del 2022 celebrando il grande ritorno del rock (e del post-rock), ci ritroviamo un anno dopo a lasciarci alle spalle un anno dove è davvero difficile rintracciare tendenze degne di nota. Non che questo sia un grande problema, specie in anni distopici come quelli che stiamo vivendo. Certo, si è sentita quest’anno la mancanza di dischi in grado di dare alla storia della musica veri e propri scossoni (si veda alla voce Ants from Up There dei Black Country, New Road o Skynti Fia dei Fontaines D.C.), ma non di soli “capolavori” si nutre la nostra fame musicale.

Talvolta ci si prende troppo sul serio quando si fanno classifiche come questa, si cercano appunto tendenze, ritorni, nuovi stili, si dà alla musica quel carattere socio-politico che ce la fa apprezzare in un’ottica più complessa. Tutto giusto, ma talvolta si dimentica che ci sono album che ci rimangono impressi al di là del loro valore artistico o storico, solo perché rendono si legano magicamente a momenti, persone, luoghi, rendendoli spesso indelebili. Ed è in questo incrocio di venti tra spazio intimo ed esterno, tra privato e pubblico che gli ascolti che facciamo nel corso di un anno assumono una loro logica, diventano un mosaico (spesso incompleto) di sensazioni e pensieri che ci accompagnano e a volte ci segnano.

Fatta questa premessa, parto come di consueto da mio podio. Al primo posto Playing Robots Into Heaven (UMG/Republic) di James Blake, un disco che ho ascoltato nell’ultimissima parte dell’anno, ma che ha scalato le vette della mia classifica perché dalla prima nota mi ha dato la sensazione che fosse la cosa che in quel momento stavo cercando, o addirittura aspettando. Ho sempre apprezzato la poliedricità del musicista-producer inglese, la sua capacità di muoversi tra cantautorato e soul, tra raffinatezze post-dubstep e le bass-line dell’elettronica da club. In questo disco Blake intreccia in maniera magistrale tutti i suoi riferimenti, riuscendo a far rivivere le stesse atmosfere del Tricky di Pre-Millennium Tension. Nota a margine: Asking To Break, la traccia che apre il disco, vale da sola l’intero ascolto.

Seconda piazza per Martina Bertoni - nativa italiana, ma berlinese di adozione – che con Hypnagogia (Karlrecords) si conferma una delle musiciste e compositrici neo-classiche più interessanti a livello globale. Se nel già bellissimo Music For Empty Flats, uscito due anni or sono, le atmosfere erano più condizionate dalla drone music, nel nuovo disco il “suo” violoncello diventa padrone assoluto, trasportando l’ascoltatore in una meravigliosa dimensione onirica fuori dal tempo e dallo spazio.

“Medaglia di bronzo” per Everything is Alive degli Slowdive, giunti dopo sei anni al secondo album dopo la reunion. È inutile negare che sul quintetto di Reading pesa il fatto di essere una delle band che hanno inventato il cosiddetto shoegaze agli inizi degli anni ’90, collocandosi così a metà strada tra il mito dei My Bloody Valentine e il post-rock che verrà (in breve tempo) anche in Terra d’Albione. Everything is Alive riesce a sopportare bene il peso di questa storia, senza specchiarsene mai. Ed è così che convivono perfettamente ballate semi-cantautoriali, guizzi synth-pop e incursioni che rimandano direttamente alla neo-psichedelia anni ’80 di cui sono eredi. Tra i tanti gioielli presenti nel disco, segnalo l’incantevole (quasi) pop di The Slow: da ascoltare sia quando si è felici che quando si è tristi.

Proseguiamo con le altre uscite, in ordine temporale di ascolto. Si parte con Colours of Air (Kranky), collaborazione tra due dei maggiori esponenti delle avanguardie musicali degli ultimi anni, Loscil e Lawrence English: il disco, realizzato con un organo a canne del XIX secolo dell’Old Museum di Brisbane, riesce a essere allo stesso tempo originale e rigoroso, cosa non certo facile per questi tempi. Su versanti sonori completamente diversi si colloca l’ultimo lavoro del rapper statunitense Lil Yatch, Let's Start Here (Quality Control, Motown, UMG), che riesce a inglobare addirittura spunti di indie psichedelica su tappeti funk di altissima scuola: da ascoltare, su tutte, l’ottima The BLACK seminole. Rimanendo in ambito “black”, uno dei dischi più apprezzati dell’anno è stato Raven dell’artista etiope Kelela, capace di miscelare r&b, cantautorato, trip pop ed un’elettronica sempre elegantissima: On the Run è una vera perla.

Grande ritorno, dopo oltre 10 anni, per i dEUS, storica band indie rock, capace negli anni ’90 di firmare capolavori assoluti come The ideal crash. How To Replace It (PIAS) è un disco che conferma il talento senza tempo del quintetto belga, impreziosito dal brano che dà il titolo all’album che ci fa ritoccare senza rimpianti le vette del rock alternativo raggiunte un paio di decenni fa. Talento purissimo, quello della londinese Anna B Sauvage, che torna a due anni di distanza da A Common Turn (segnalato nella mia classifica del 2021); il cantautorato post-moderno di in|Flux, nel quale spicca anche qui la canzone che regala il titolo al disco, è destinato a far breccia anche tra i più puristi del verbo “voce/chitarra”. Tra i pochi dischi italiani degni di nota c’è Bono/Burattini con Suono in un tempo trasfigurato (Maple Death); il sodalizio femminile composto da Francesca Bono degli Ofeliadorme e Vittoria Burattini dei Massimo Volume riesce a districarsi perfettamente tra suoni d’avanguardia ed elettronica di matrice kraut, con la splendida Trick or Chess sugli scudi. Sempre a cavallo tra psichedelia ed elettronica troviamo i russi Gnoomes, che con Ax Ox (Rocket Recordings) giungono al loro quarto album, quello della definitiva consacrazione.

Tra i dischi più acclamati dell’anno anche Praise a Lord Who Chews But Which Does Not Consume (Warp) di Yves Tumor, ormai sempre più il David Bowie dei nostri tempi; da ascoltare senza sosta Meteora Blues, elettrizzante e commovente. Tra cantautorato ed elettronica tenue si muove Katie Gately con il suo Fawn/Brute (Houndstooth), un doppio concept che annoverà perle di rara bellezza come Scale. Viene dall’Estoniala giovanissima Hanakiv, che con Goodbyes (Gondwana) firma uno degli esordi più interessanti degli ultimi anni per la scena ambient. Rimanendo più o meno nella stessa scena, ma questa volta con un artista di bel altra esperienza, va assolutamente segnalato No Highs (Kranky) di Tim Hecker, con il canadese che questa volta si avvale della collaborazione preziosa di Colin Stetson.

Tra le band protagoniste del progressive europeo di fine ’70, i belgi Aksak Maboul si sono riattivati nel 2010 e da allora non hanno sbagliato un disco: Une aventure de VV (Crammed Disc/Made To Measure) è senza dubbio tra le prove più riuscite. Di grande spessore anche la prova di Dave Okumu, rapper viennese naturalizzato britannico, che con I came from love (Transgressive) inietta di negritudine (suo padre è l’attivista pacifista keniota Washington Okumu) un sound capace di miscelare benissimo hip-hop, soul e jazz; Prison, canzone dal chiaro contenuto politico, è forse per me in assoluto il brano più bello del 2023. Molto convincente Standers (The Leaf Label), il secondo album del produttore inglese Craven Fault che si dimena in modo sinuoso tra elettroprog e industrial; notevole l’episodio Odda Delf. Molto denso e raffinato Paranoïa, Angels, True Love (Bacause) del cantautore francese Christine and the Queens, nel quale spicca la meravigliosa I feel like an angel.

E visto che il 2023 è stato l’anno dei grandi ritorni, ce ne sono quattro che vanno menzionati senza ombra di dubbio. Stiamo parlando dell’eterna Pj Harvey, che con I inside the old year dying (Partisan) metto un altro tassello a una formidabile carriera, dei Blur inaspettatamente tornati ai fasti degli anni ’90 con The ballad of darren (Norman), degli Explosion in the Sky, una delle band più influenti del post-rock di seconda generazione, che licenziano End (Temporary Residence, Bella Union) e dimostrano di saper suscitare ancora grandi emozioni. Infine i viennesi Radian, una delle punte di diamante del post-rock elettronico mitteleuropeo, tornati sulla scena dopo sette lunghi anni con Distorted Rooms (Thrill Jockey) e capaci per l’ennesima volta di lasciare il segno.

Concludiamo la carrellata con Afternoon X (Fire) dei Vanishing Twin, che devono tantissimo agli Stereolab ma sanno mettere molto del loro, ed Everything Is Alive (Thirty Tigers) dei Darlingside, uno dei dischi country-folk più belli degli ultimi anni. Menzione a parte merita il genio queer di Anohni, che con i suoi and the Anohni Johnsons - precedemente noti come Antony and the Johnsons – realizza My Back Was A Bridge For You To Cross (Secretly Canadian), un album che lo proietta forse all’apice della carriera; Sliver of Ice una delle canzoni più belle del 2023.

 
 
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