Il rock è morto? Viva il rock! Breve guida agli ascolti del 2022

Sul podio della classifica Black Country New Road, Lucrecia Dalt e King Hannah

30 Dicembre 2022

«È un peccato che tu ti sia perso il rock» dice Lester Bangs, interpretato da Philip Seymour Hoffman nel film Almoust Famous, all’aspirante critico musicale William Miller. Era (nel film) il 1972, ma questa frase intrisa di stucchevole paternalismo segna una sorta di spartiacque ideale, anche se in realtà il buon Bangs non l’ha mai pronunciata e probabilmente neppure mai pensata. Una frase che fa il paio con: «il rock è morto!»; quante volte è rimbombata questa espressione negli ultimi 20, 30, 40 anni. Critici, opinionisti di varia natura si sono cimentati non poco per articolare un concetto che ha sempre avuto quel sapore un po' populistico di sostituire la nostalgia con la comprensione storica, di contemplare una fantomatica golden age che si è chiusa per sempre.

Chissà cosa penseranno questi signori nell’ascoltare i dischi usciti nel 2022, messi senza dubbio in crisi da questa (disuniforme, per fortuna) wave nella quale spiccano Black Country, New Road, King Hannah, Fontaines D.C., Dry Cleaning, solo per citarne alcuni. E che dire del ritorno in grande stile del post-rock degli esordi, quello che faceva scuola a Louisville a inizio ’90 e che per primo aveva superato organicamente gli stilemi della forma canzone del rock tradizionale (bella questa contraddizione!): Black Country, New Road (sempre loro…), i Caroline, Shane Parish.

Tutti musicisti e band che si nutrono ancora di una linfa vitale che non muore, ma si trasforma diventando talvolta sempre più spuria altre volte facendosi assalire dall’idea di revival. D’altronde c’è chi come Simon Reynolds ha provato a spiegare bene questa sorta di “ossessione per il passato” che caratterizza il nostro tempo: in Retromania – unendo al solito critica musicale e analisi sociologica – parla di come lo spartiacque del nuovo millennio non abbia rispettato le aspettative di un futuro che in molti si aspettavano, tanto in campo culturale, quanto sociale, economico e politico.

E forse è proprio nel grande schiaffo che gli eventi degli ultimi anni hanno dato all’idea positivista di “sviluppo” storico che va letta questa tendenza manifestatasi apertamente in questo 2022, quantomeno nella sfera musicale. Senza enfatizzarla o assolutizzarla, ma provando a inserirla in un complesso di cose in cui la musica è solo un pezzo, e non sempre il più bello.

Ma veniamo alla cosa (speriamo) più interessante di questo articolo: la classifica dei migliori dischi usciti nell’anno che volge al termine tra non molti giri di lancette.

Sul gradino più alto del podio ci sono loro - i Black Country, New Road - già citati due volte in questo articolo, con Ants from Up There, pubblicato da Ninja Tune agli inizi di febbraio. A distanza di un anno esatto dal già ottimo esordio For the Firts Time (sempre per la stessa label), la band inglese riesce nella magia di far convivere passato e futuro, rimescolando attitudini e generi musicali in qualcosa di inedito e addirittura senza tempo. Il post-rock di Slint e Gastr Del Sol, gli Animal Collective, Robert Wyatt, David Bowie, gli Arcade Fire, i Flaming Lips sono alcuni dei riferimenti di un gruppo che si troverà ora ad affrontare la difficile prova di sostituire la fantastica voce di Isaac Wood, che ha abbandonato per dichiarati problemi psichiatrici.

Subito alle spalle si piazza Lucrecia Dalt con ¡Ay! (RVNG), compositrice e musicista di origine colombiana da tempo stanziatasi a Berlino. In quest’album si porta a livelli eccelsi una ricerca sonora già iniziata con il precedente No era sólida, del 2020, ossia fondere le musiche tradizionali della sua terra con l’attitudine elettronica d’avanguardia che ha connotato la sua formazione musicale. È così rumba e bolero convivono perfettamente con il downtempo astratto che tanto deve a Nicolas Jaar, musicista con cui Lucrecia Dalt ha collaborato, o con il cosmic jazz più minimale.

Al terzo posto I'm Not Sorry, I Was Just Being Me del duo di Liverpool King Hannah (City Slang), giunti al primo LP dopo aver pubblicato nel 2020 l’EP Tell Me Your Mind And I'll Tell You Mine. Si tratta di una prova preziosa, nella quale Hannah Merrick e Craig Whittle mostrano una sapiente spregiudicatezza nel cimentarsi tanto con l’indie rock degli anni ’90 quanto con il cantautorato psichedelico dei Mazzy Star. Sugli scudi la meravigliosa It’s me and you, kid, traccia che da sola conduce il disco oltre le barriere del tempo.

In ordine sparso, gli altri dischi menzionevoli di nota. Si citavano prima i Fontaines D.C., che con Skynti Fia (Rough Trade) sono già diventati un’icona del revival post-punk, i londinesi Dry Cleaning con la loro ottima seconda prova Stumpwork (4AD), il post-rock louisvilliano dei Caroline, che firmano con Rough Trade il loro esordio omonimo, e di Liverpool di Shane Parish, ex chitarrista della band di Asheville Ahleuchatistas. Sempre in debito con il post-rock, ma su sonorità più affini al dream pop i Modern Nature di Jack Cooper (ex The Beep Seals, Mazes e Ultimate Painting), giunti con Island of noise (Bella Union) al loro secondo disco. Menzione a parte per i Ghost Power, strana creatura scovata da Tim Gane e dalla sua etichetta Duophonic Super 45s, che con l’album di debutto omonimo fanno in qualche modo rivivere i suoi Stereolab degli albori.

Nonostante I 5 anni di assenza dalle scene, non sbagliano un colpo i texani Black Angels, che con Wilderness Of Mirrors (Partisan) confermano l’originalità del loro sound tra stoner e psych-garage. Ancora una volta ad altissimi livelli gli Horse Lords, che nel 2016 avevano stupito con Intervention e che con Comradely Objects dimostrano di essere gli eredi più credibili di Don Caballero & Co. Unico disco italiano di “area rock” presente in questa classifica è Karma Clima dei Marlene Kuntz (Ala Bianca), grazie al quale la band di Godano firma non solo una delle opere musicalmente più significative dalla loro lunga carriera, ma anche un manifesto di valore per la lotta contro la crisi climatica.

E ancora: il poliedrico cantautorato di Daniel Rossen, leader dei Grizzly Bear, che con You Belong There (Warp) bissa quanto di buono si era già intravisto visto 10 anni fa con l’EP solista Silent Hour/Golden Mile, o quello politico della norvegese Jenny Hval, che con Classic Objects (4AD) dà maggior spessore al free-folk dei precedenti lavori. Proseguiamo con l’R&B mutante di Perfume Jenius con Ugly season (Matador); lo splendido spoken-word di Kae Tempest, che in The line is a curve (Fiction) afferma con orgoglio il suo non binarismo di genere; l’hip hop nostrano di Rancore, che in Xenoverso (Universal) ci fa esplorare orizzonti filosofico-spaziali che ne fanno uno dei migliori autori – oltre che rapper – italiani degli ultimi 10 anni; l’elettro-garage del londinese Gaika, che nell’antologia War island OST (The spectacular empire) offre il meglio della generazione post-dubstep.

Sul versante più “sperimentale” troviamo l’ottimo ritorno del norvegese Biosphere, che con Shortwave Memories (Biophon) tocca l’ennesima vetta di una carriera quarantennale nell’elettronica minimalista; la mai banale drone music di Sarah Davachi con Two Sisters (Late Music) e del duo Raum, tornato con Daughter (Yellowelectric) dopo quasi 10 anni di silenzio; il pulsante kraut-jazz dell’australiano Oren Ambarchi, che con Shebang (Drag City) chiude una trilogia iniziata con Quixotism (2014) e proseguita Hubris (2016); l’ambient del siciliano Lucio Leonardi, in arte Pluhm, con Canzoni di buio e di luce (Subexotic); l’eterna “Serpenta” Diamanda Galàs, che con Broken Gargoyles (Intravenal Sound Operation) si cimenta con alcuni orrori del secolo passato (la febbre gialla all’inizio del ‘900 e i presagi della Prima Guerra Mondiale) per raccontare le tragedie della contemporaneità. Chiudiamo con la psych-world di Who Are We (Glitterbeat) dell’inedito duo Al-Qasar, composto dal chitarrista Thomas Attar Bellier e dal cantante marocchino Jaouad El Garouge.

 
 
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