ReadBabyRead #104 del 20 dicembre 2012


George Orwell: "Omaggio alla Catalogna"

20 Dicembre 2012


George Orwell


Omaggio alla Catalogna (Capitolo VII)


per info su Franco Ventimiglia e Claudio Tesser:

Lettura e altri crimini
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Legge: Franco Ventimiglia


Vagabondaggio ed esilio:
George Orwell e la guerra di Spagna

di Mario Maffi

In un romanzo del 1936, Fiorirà l'aspidistra, George Orwell aveva narrato le vicende di Gordon Comstock, londinese trentenne che si lascia andare alla deriva, desideroso solo di toccare il fondo e sottrarsi così agli obblighi e rituali dell'ambiente da cui proviene:

Voleva scendere sempre più in basso, [...] tagliare i lacci del suo rispetto di sé, sommergersi interamente, sprofondare [...]. Era tutto associato nella sua mente al pensiero di essere sotto terra. Gli piaceva pensare alla gente perduta, alla gente del sottosuolo, vagabondi, mendicanti, criminali, prostitute. È un mondo buono quello in cui vivono nelle loro fetide pensioncine equivoche, nelle loro infermerie d'ospizio. Gli piaceva pensare che sotto il mondo del denaro si stendono i vasti bassifondi della sporcizia e della degradazione, dove sconfitta o riuscita non hanno più significato alcuno; una specie di regno di spettri, dove tutti sono uguali. Ecco dove desiderare essere, giù nel regno spettrale, al di sotto dell'ambizione. Lo consolava in certo qual modo pensare agli slums velati dal fumo dei quartieri meridionali di Londra estendentisi all'infinito, immenso deserto implacabile dove ti puoi perdere per sempre.

Questo desiderio di non-appartenenza, di "sprofondamento", di identificazione con la "gente del sottosuolo", era stato anche di George Orwell (nato Eric Blair e educato nella prestigiosa Eton) fin da quando, nel '28, era tornato in Europa dopo cinque anni di servizio nell'Indian Imperiai Police in Birmania. Da quel periodo di ristrettezze e di vagabondaggi era nato Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933), un libro che - con i suoi mendicanti, le sue prostitute, i suoi ladruncoli, i suoi emarginati che sbarcano il lunario come possono - ricorda per tanti versi le pagine di un Jack London, di un Henry Miller, di un John Clellon Holmes e - anche - di un Jack Kerouac. Ma, come dirà qualche anno dopo in La strada di Wigan Pier (1937), sfortunatamente non si risolve il problema classista diventando amici di vagabondi. Al massimo, facendolo, ci si libera di qualche pregiudizio di classe.

E, in fondo, anche La strada di Wigan Pier nasce da un'esperienza di contatto con la "gente del sottosuolo", un sottosuolo questa volta non più metaforico ma reale: le miniere di carbone dell'Inghilterra settentrionale. I minatori di Wigan Pier rappresentano per Orwell la scoperta della condizione operaia.
Dietro a tutto ciò, esiste senza dubbio una lunga tradizione, e non solo inglese. È la tradizione dell'artista deraciné, da Lord Byron ad Arthur Rimbaud, che rifiuta ogni fedeltà al proprio mondo d'origine; una tradizione, poi, squisitamente vittoriana: in artisti, romanzieri (Arthur Morrison, George Gissing), giornalisti (Stephen Reynolds), sociologi ante litte-ram (Henry Mayhew, George Sims, Charles Booth), ritroviamo le medesime tattiche del travestimento e dell'esplorazione di un mondo sommerso, lo stesso fascino per l'esotico e il diverso, lo stesso rapporto ambiguo con "le masse". E anche gli Stati Uniti diedero il loro contributo, come testimoniano i nomi di Edward Crapsey Josiah Flynt, Jack London.
Orwell però non s'accontenta di "sommergersi": cerca d'andare oltre. Si fa vagabondo per poter diventare esule, come mostra Raymond Williams:1 ritira la propria adesione alla classe da cui proviene, e da vagabondo attraversa la società, registrandone la struttura, cogliendo al suo interno il moto molecolare degli individui e dei gruppi. La guerra civile in Spagna, dopo la Birmania, dopo Parigi e Londra, dopo Wigan Pier, è l'occasione per Orwell di ritrovare una propria collocazione sociale, politica, culturale, psicologica.
La Spagna segnò una svolta per molti intellettuali, di tutte due le sponde dell'Atlantico. Da Stephen Spender a W.H. Auden, da Christopher Caudwell a George Orwell, da Ernest Hemingway a John Dos Passos, artisti e scrittori si schierarono con le forze repubblicane, andarono in Spagna, combatterono, morirono, scrissero romanzi e reportages, osservarono, raccontarono... La Spagna offrì l'opportunità di sfuggire al nada, al "nulla" d'un mondo che sembrava aver esaurito stimoli e grandi illusioni; d'obbedire al richiamo della lotta, dell'azione, dello scontro con un nemico chiaramente individuabile; di rivalutare il ruolo dell'intellettuale come attore e non come spettatore passivo di eventi storici che scorrono davanti ai suoi occhi. Fu un grande "appuntamento etico", gravido delle "suggestioni di una crociata";2 e in questo appuntamento ciascuno finì per cercare, portare, ritrovare ciò che più gli era congeniale: i fantasmi di morte di personaggi agonizzanti, la rigenerazione della cultura, la visione quasi religiosa del futuro dell'umanità... Non fu tanto l'adesione incondizionata ad una causa, quanto piuttosto un atto estremo d'individualismo, una ricerca di conferme, nell'azione, alle proprie concezioni sociali e artistiche.
Come dice il Runcini, l'impegno politico degli scrittori della "sinistra" si muoveva così nell'ambito di una interiorizzazione del marxismo, dove, anche al primo sguardo, non sfugge la particolare angolatura di élite nella coscienza della problematica sociale.

Proprio questa "interiorizzazione del marxismo", questa dimensione esistenziale dell'impegno politico, questa interpretazione della guerra civile spagnola come apertura d'un nuovo futuro, staranno alla base di tante abiure, di tanti pentimenti successivi. La tragedia spagnola - il suo essere l'ultimo disperato sussulto di una parte del proletariato internazionale davanti alla sconfitta inferta dalla reazione borghese e dalla degenerazione staliniana - travolse con sé artisti e scrittori accorsi in Spagna per rispondere a quei richiami e a quegli appelli.
Per Orwell, quell'esperienza segnò il culmine della sua vicenda di vagabondaggio ed esilio, e gli permise di stringere meglio il proprio legame - almeno sul piano psicologico - con quella/fra classe che aveva cominciato a conoscere nei tunnel, nelle strade, nelle catapecchie di Wigan Pier. Nelle trincee della Catalogna, Orwell si preparava a diventare, da esule, transfuga della classe dominante. Ma la tragedia in cui ben presto si trasformò la guerra civile interruppe con un taglio netto e doloroso questo processo.
Orwell giunge in Spagna nel dicembre 1936, a sei mesi dallo scoppio delle ostilità; s'arruola nella milizia del poum, piccola formazione di sinistra dai confini incerti che comprende dissidenti dal partito staliniano, ex trockijsti, anarco-sindacalisti, e che - dagli avversari - viene sbrigativamente definita come "organizzazione trockijsta". Dopo settimane di addestramento approssimativo, viene inviato al fronte, dove lo attendono altre settimane di snervante inattività, nel fango, nel freddo, tra gli escrementi, male equipaggiato e male armato. Torna in licenza nelle retrovie e si ritrova a Barcellona in tempo per vivere le giornate del maggio 1937, primo atto della guerra scatenata dal partito staliniano1 contro le formazioni alla sua sinistra. Di nuovo al fronte, viene ferito seriamente nell'assedio di Huesca; durante la sua convalescenza, il poum - di cui Orwell non ha mai fatto veramente parte - viene messo fuori legge: lo scrittore deve nascondersi; eppure, rischiando l'arresto, fa di tutto per ottenere la liberazione di militanti imprigionati. Infine, riunitosi alla moglie, ripara in Francia e di qui fa ritorno in Gran Bretagna.
L'esperienza spagnola di Orwell è dunque segnata da una progressiva disillusione: nei confronti di forze politiche che alla prova dei fatti si mostrano strumenti di conservazione e di disarmo ideologico e materiale delle masse in lotta (gli staliniani), e nei confronti di formazioni di sinistra dai contorni sia organizzativamente sia programmaticamente confusi che contribuiscono ad accrescere la sensazione di caos sul piano politico come su quello militare, anche a rischio d'esserne le prime vittime (gli anarchici, lo stesso poum).
Le pagine di Omaggio alla Catalogna - uno dei libri più appassionanti su quegli eventi - mostrano questa progressiva disillusione, l'amarezza nel cogliere il netto mutamento d'atmosfera nel giro di pochi mesi (dall'entusiasmo rivoluzionario degli inizi al clima soffocante di sospetto e disgregazione, in cui borghesia e piccola-borghesia possono rialzare sfacciatamente la testa), il fastidio fisico per la disorganizzazione e la superficialità con cui sono condotte le azioni di guerra, il disgusto per l'opportunismo delle forze che hanno in pugno il destino di proletari e contadini. Ma accanto a ciò, da un lato si fa strada - lenta e dolorosa conquista - una comprensione sempre più lucida delle forze in campo, al di là dei confini ristretti dell'esperienza diretta, in prima persona, e dall'altro, corre un sentimento di emozione, di ammirazione per la straordinaria generosità mostrata dalle masse in armi, il senso di aver trovato, finalmente, un punto di riferimento, un approdo in cui por termine al vagabondaggio e all'esilio.
Abbiamo allora le pagine più affascinanti di Omaggio alla Catalogna, quelle che descrivono i visi dei miliziani ("Era un giovanottone dall'aspetto rude di venticinque-ventisei anni, dai capelli biondo-rossicci e un gran paio di spalle. Portava il berretto di cuoio con la visiera minacciosamente inclinato su un occhio [...]"), le giornate in trincea a scrutare il nemico o sui tetti di Barcellona a fraternizzare con quanti fino a ieri erano compagni di lotta, le spedizioni a cercar legna nelle valli in terra di nessuno, le improvvise sortite notturne, l'atmosfera equivoca dei grandi alberghi della città catalana ("Appena lo scontro nelle strade si era scatenato, l'albergo si era riempito di una straordinaria folla di persone [...]"), i paesaggi e i colori dell'inverno e della primavera, le sensazioni del ferimento, la tensione della clandestinità e della fuga... Pagine che ricordano la penna del miglior Hemingway, del miglior Graham Greene. Fino a quell'ultimo brano amaro in cui sembra che le acque si richiudano su George Orwell, sulla sua esperienza in terra di Spagna, sul suo tentativo di uscire dall'esilio:

E poi l'Inghilterra - l'Inghilterra meridionale, probabilmente il paesaggio più soave del mondo. Quando si passa da quelle parti, specialmente se ci si sta tranquillamente riprendendo dal mal di mare con i soffici cuscini di un treno sotto il sedere, è difficile credere che qualcosa stia veramente succedendo da qualche altra parte del mondo. Terremoti in Giappone, carestie in Cina e rivoluzioni in Messico? Non vi preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casa domattina e il «New Statesman» uscirà di venerdì. Le città industriali erano lontane, una macchia di fumo e di sofferenza nascosta dalla curvatura della terra. Qui si era ancora nell'Inghilterra che ho conosciuto nella mia infanzia: le scarpate lungo la ferrovia ricoperte di bori selvatici, i prati dall'erba alta dove grandi cavalli lustri brucano e meditano, i lenti ruscelli in mezzo ai salici, le verdi distese di olmi, la speronella nei giardini delle casette di campagna; e poi il grande deserto tranquillo della periferia londinese, le chiatte sul fiume fangoso, le strade familiari, i manifesti che annunciano gli incontri di cricket e i matrimoni della famiglia reale, i signori in bombetta, i piccioni di Trafalgar Square, gli autobus rossi, i poliziotti in blu -tutti addormentati nel profondo, profondissimo sonno dell'Inghilterra, da cui a volte temo non ci sveglieremo mai finché non ne saremo strappati di colpo dal boato delle bombe.

Le acque dunque si richiusero su Orwell. Non gli fu dato di comprendere che la strategia di coloro che in Omaggio alla Catalogna chiama "comunisti" era in realtà la pratica della degenerazione e della controrivoluzione, che non si trattava del fallimento del marxismo, ma d'una sua sconfitta sul campo di battaglia contro nemici esterni e interni. La delusione fu bruciante, ma l'amarezza della disfatta non lo spinse nelle schiere di coloro che - con la stessa facilità con cui avevano abbracciato il comunismo - fecero in seguito dietrofront, denunciandolo come "il dio che è fallito". Una sostanziale coerenza, un'"integrità personale e politica di stampo protestante"4 glielo impedirono, e non gli rimasero che gli incubi amari di Animai Farm (1945) e Nineteen Eighty-Four (1949). Leggendo le pagine di Omaggio alla Catalogna, viene istintivo pensare al John Reed in Insurgent Mexico. Per molti versi e fino a un certo punto, le due parabole sono simili, nel succedersi di sradicamento, immersione, vagabondaggio, esilio dalla propria classe. Orwell ebbe la sfortuna di muoversi lungo la fase calante del movimento rivoluzionario, mentre Reed dopo la vittoria della rivoluzione bolscevica e del partito di Lenin e Trockij. Negli ultimi anni della sua vita, John Reed poté diventare un transfuga della classe dominante; George Orwell morì invece esule in terra di nessuno.


Le Musiche, scelte da Claudio Tesser

Montserrat Figueras-Jordi Savall-Hespèrion XX-La Capella Reial De Catalunya, Anon: Sibilla Catalane (Anonymous)

 
 

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