Sanremo 2024: chi ha vinto e chi ha perso

Tripudio di Angelina Mango. Una serata lunga, lunghissima, che chiude un Sanremo trionfale dal punto di vista degli ascolti, record col 74,1% di share. Amadeus termina la sua avventura al teatro Ariston.

11 Febbraio 2024

È stato il festival della noia, questa 74esima edizione del Festival di Sanremo, non solo La noia di Angelina Mango che ha svettato su chiunque, prendendosi anche il premio “Lucio Dalla” assegnato dalla sala stampa e il premio “Giancarlo Bigazzi” per la miglior composizione musicale assegnato dall’Orchestra del Festival. Ma una noia che, nonostante gli sforzi di Ama e l’amico di marachelle Fiorello, ha pervaso tutta la kermesse, dalle canzoni, agli ospiti (salvo rare eccezioni), alla conduzione. 

Non è dello stesso parere l’intera penisola, visto il record di ascolti per la finale -14,3 milioni di spettatori per il 74,1% di share - e il boom di televoto, che si è addirittura intasato. E c’è anche da constatare che il carrozzone della musica italiana non viene scalfito, “Sanremo è Sanremo” e rimane un dato di fatto che la settimana del festival riesca volenti o nolenti a paralizzare l’Italia e catalizzare l’attenzione mediatica, culturale e sociale.

Dopo gli ammonimenti di Maurizio Gasparri che aveva chiesto un festival senza politica, Ama&Co hanno cercato di camminare sui carboni ardenti, senza mai scottarsi, sia mai. La polemica dell’edizione ce l’ha regalata John Travolta, costretto nei balli di gruppo e a smarcarci ci è servito un altro ospite internazionale, Russel Crowe, che l’ha sbeffeggiato con la stessa facilità con cui Massimo Decimo Meridio tuonava quel “scatenate l'inferno" che ancora fa venire i bollori. 

Tra gli altri riconoscimenti va segnalato il premio della critica, intitolato a “Mia Martini”, che è stato vinto da Loredana Bertè con la canzone PazzaFiorella Mannoia con Mariposa, invece, si aggiudica il Premio “Sergio Bardotti” assegnato dalla Commissione Musicale per il miglior testo che dichiara «questo testo è un manifesto della femminilità, dedico questo premio a tutte le sorelle».

La cinquina vincente vede dopo Angelina Mango, il rapper Geolier, con la canzone I P’ ME, TU P’ TE, Annalisa con Sinceramente, Ghali con Casa mia e Irama con Tu no.

La reazione incredula davanti alla vittoria di Angelina Mango, alla sua prima partecipazione al Festival di Sanremo, che dichiara «mi sento così piccola rispetto a tutto questo, ringrazio con tutto il cuore dei giganti come Dardust e Madame», ci dice che per una volta vincono i giovani, dato tutta la top 5 rientra negli under 40. Ma ci chiarifica anche che vince la Warner, che li ha sotto contratto.

Trionfa una donna, non succedeva da dieci anni, l’ultima era stata Arisa con Controvento e questo forse ci serviva sottolinearlo. Angelina Mango vince perché è brava, doppiamente se consideriamo che essere figlia d’arte non sempre facilita il percorso artistico, è importante dirlo perché in una gara ad ostacoli le donne ne devono comunque superare di più, devono dimostrare di più e faticare il doppio. Qualcosa lo aveva accennato l'anno scorso Marco Mengoni, vincitore dell'edizione 2023 che si era trovato a condividere la finalissima con soli artisti maschi.

Si chiude anche il lustro della direzione artistica di Amadeus, che ha avuto la capacità di adattare il Festival ai suoi tempi eterni, con una sceneggiatura con evidenti problemi di tempistiche e vuoti da gestire. È uno show lunghissimo, smisurato, esagerato: costellato di boutade e “geniali trovate” - come quella degli artisti che presentano altri concorrenti (ma perché!?) - atte soltanto ad allungare il brodo di molteplici siparietti, il più delle volte costruiti male e gestiti peggio, la cui finalità ultima pare essere solo ed esclusivamente fare pubblicità alle fiction rai - settore decisamente in crisi - e parare colpi ai continui appunti che “telemeloni” incassa ormai da mesi.

Come scrive Beatrice Dondi in un editoriale de “L'espresso” «il festival ha spesso anticipato o descritto i cambiamenti di costume, della politica e della società in atto. Oppure, molte volte, ha proposto una contro-versione reazionaria poi spazzata via dagli eventi». E davanti all’eccellenza del nazionalpopolare forse quest’anno qualcosa comincia a scricchiolare - non è mai abbastanza sia chiaro - ma un Geolier che porta Napoli e l’antiproibizionismo al primo posto nelle serate cover è indicativo di un trend giovane che sta cambiando, che vive più le contraddizioni e meno “il volemose comunque bene”. Al di là dei fischi - non era la prima volta e purtroppo la stessa sorte era toccata a Mahmood nel 2019 -, ignobili in ogni misura, ancora peggio fa il giornalista di turno che gli ha affibbiato di ufficio “la sindrome dell’impostore”. Geolier fuori dall'Ariston domina le classifiche, un ragazzo di 23 anni che subisce la violenza dei social e un hatespeech anti meridionalista smisurato era qualcosa di cui non avevamo bisogno.

Il rapper napoletano però ha avuto la destrezza di essere genuino, di uscire dal personaggio litigioso ed orgoglioso “della maglia” come dipingono i peggiori stereotipi. Si parla di Secondigliano - e non in termini per forza negativi-, si parla di un giovane che ce l’ha fatta e che ne ha rappresentati tantissimi. Geolier ha puntato sulla forte connotazione identitaria della sua terra e della sua storia. 

Un messagio forte e deciso arriva anche da BigMama che ha dedicato la sua performance e il suo brano La rabbia non ti basta a «tutte le persone insicure, a chi prova vergogna». Per la cantautrice campana, classe 2000, credere nei propri sogni «salva» e rilancia «se volete ballate, ballate». Chiosa con un messaggio altrettanto forte «questo lo faccio per voi e l’ho fatto anche per me».

Perde il clima e l’ambiente anche quest’anno. Eni non si è risparmiata il green carpet, anzi lo ha allungato a 300 metri. Oltre al solito washing si aggiunge anche la normalizzazione del climate change, del caldo record e di un mondo che va in fiamme; il tema della sostenibilità si annacqua e le proteste dei trattori vengono accolte sul palco, non per dargli risonanza ma in qualche modo per riassorbirle.

Perde anche il Fanta Sanremo, che altro non serve a voler far sentire protagonista pure chi sta a casa (il sano anonimato probabilmente non piace più) e la continua corsa dei cantanti a elargire abbracci e mazzi di fiori sul palco dell’Ariston per distribuire punti a chi li ha messi in squadra è diventata una roba rileccata. Una liturgia secondo la quale il Fanta Sanremo diventa il premio di consolazione per chi non arriva al podio. Ha stufato - e alla fine è arrivato il momento di dirlo - anche perchè non è più la trovata dei famosi quattro amici al bar ma il corri corri di sponsor e grandi aziende che elargiscono premi e bonus, in cambio di pubblicità gratuita.

Tornando alla musica, trenta cantanti sul palco, un numero record, e trenta brani da cantare ma al netto delle belle voci e delle anime pure, non c’è niente di particolarmente sconvolgente e innovativo. Qualche scelta fuori dagli schemi, forse per avere le quote punk e non lasciare adito a lamentele, allo stesso tempo non si può osare troppo e non si scalfisce in nessun modo la compagine agée.

Perde, quindi, anche un po' la musica. Da grande - e unica - protagonista come dovrebbe essere, quest’anno in particolare, è passata decisamente in secondo piano, sembrava quasi non interessassero i testi delle canzoni, pochi commenti sulle performance, sui gesti improvvisati, su quelli premeditati. 

Tante osservazioni sugli outfit e ancora pubblicità occulta sulle major dell'alta moda: ne risente pure Mahmood che canta Tuta gold in finale come se fosse lui l'ospite internazionale.

Vince, però, Ghali. Vince perché scrive un manifesto in rima dell’inclusione, lo fa sottolineando quanto lui e chiunque altro sia un “italiano vero”. Vince perché senza troppi giri di parole - è giusto citare anche un più timido Dargen D’amico che abbiamo comunque apprezzato - dice quello che nessun altro è stato in grado di dire. Stop al genocidio.

 
 
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