Ai fiori non serve il pettine

Intervista alle autrici Ilaria Santambrogio e Marina Gellona durante il Book Pride di Genova 2023

23 Ottobre 2023

Ilaria è una donna che fin da ragazza soffre di alopecia. Un’esperienza vissuta, attraversata, combattuta e poi fiorita in dialogo con sé stessa. Ilaria Santambrogio racconta la sua storia, tra la carriera lavorativa, la vita famigliare, e un corpo che, fuori dai canoni estetici, porta poi alla consapevolezza di sé. In occasione del Book Pride a Genova abbiamo intervistato lei e Marina Gellona, giornalista, autrice e docente di narrazione delle storie di vita alla Scuola Holden di Torino dal 2003 e coautrice di questo libro, Ai fiori non serve il pettine.

Il corpo è al centro di questo libro, non solo il tuo corpo, ma anche le persone a te care, che ti stanno intorno. È spesso un corpo malata, un corpo fuori dalla norma. Hai pensato al corpo come al tema centrale del tuo libro, oppure è un cavallo di Troia che ti porta poi a parlare di altre tematiche?

Sicuramente la seconda. Il corpo diventa un mezzo per poter portare temi importanti per me:la crescita personale, la scoperta di sé, l'autodeterminazione, la scoperta di quella libertà positiva che ti permette di acquisire anche una responsabilità nel mondo. Spesso definisco l’alopecia come un’amica, che sicuramente mi ha portato momenti di grande difficoltà, a me e come anche alla mia famiglia. Ma è sempre stata anche quello stimolo per capire quale potesse essere il mio più uno, il mio piccolo passetto in più verso un'evoluzione personale che mi permettesse di vivere felice in questo mondo. Sicuramente il corpo è un po' il tuo biglietto da visita, è come ti presenti e nel libro ci sono chiaramente distinte le fasi che io ho attraversato in relazione alla malattia e anche come questa ha permesso la mia evoluzione. La prima fase è stata quella dell'accettazione. Un punto fondamentale che ho sentito forte: sentivo che non avrei potuto costruire nulla se non fossi partita da li, sentivo che quelle erano le basi solide su cui costruire qualcosa. Quindi, sono poi entrata un po' nella fase della conformità. Mi trovavo all'apice della mia carriera lavorativa, e sono passata al cercare di nascondermi, perché non volevo apparire diversa. Infin viene la fase della fioritura, perché potevo nascondermi con tutti i mezzi, ma ero diversa e quindi quel fiore che voleva nascere io lo avevo dentro di me. Grazie proprio a un percorso di crescita personale, alla fine il fiore è nato e per me il fiore è proprio il simbolo del mio andare nel mondo, dell'intento che io voglio portare, dell'intento chiaro nel passare un messaggio che alla fine la diversità è una ricchezza.

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Ho trovato molto interessante il fatto che spesso, nel tuo racconto, il malessere fisico viene percepito prima di un malessere invece più interiore, più emotivo. Dopo aver acquisito la consapevolezza di cui parlavi poco fa, questo gap tra un malessere fisico, un malessere emozionale, si è colmato, è cambiato?

Quello che è cambiato secondo me è l'ascolto, cioè prima cercavo di scindere le due cose, cioè non vedevo un uno. Non capivo che mente, corpo e spirito sono un'unica cosa e che quindi spesso il corpo manifesta prima qualcosa che sta già lavorando dentro da tempo. Quello che ho imparato da questo è ascoltare il mio corpo e chiedermi che cosa mi sta dicendo, qual è quella parte di emozioni che io non sto percependo e che si sta manifestando attraverso il corpo. In realtà sappiamo che abbiamo tre cervelli, uno di questi è proprio il cervello dell'intestino e della pancia, non ci permettiamo sempre di ascoltarlo ma credo che ci aiuterebbe tanto.

Una domanda che volevo farti è sulla dimensione professionale che tu hai vissuto o vivi e di cui parli molto nel libro. Cosa ha voluto dire per te vivere una dimensione spesso intrisa di dinamiche patriarcali e non inclusive e come si è intrecciato questo tuo vissuto con il vissuto della malattia e della consapevolezza che è derivata da questo processo di liberazione da certi canoni estetici?

Prima di tutto devo farti una confessione nel senso che io mi sento ancora in una fase di fioritura, soprattutto nella parte professionale. Ci sono ancora situazioni lavorative in cui io non mi sento a mio agio nel presentarmi senza la parrucca, che è un oggetto che oltretutto io amo molto, che mi piace utilizzare. Vorrei però utilizzarla non perché mi sento di doverlo fare, ma come mia scelta libera. Ci sono ancora situazioni lavorative in cui non ho ancora questo agio. Talvolta il mio pensiero è proprio rivolto all’altro, e alla paura di metterlo in imbarazzo. Però sicuramente il fiore ha rappresentato per me un momento di svolta per cui sono uscita da quella fase di conformità che era diventata tossica: portavo sempre la parrucca, anche nei momenti con la famiglia. Invece ora mi sento molto più libera.

Da giovane sono cresciuta in un contesto aziendale dove avevano visto l'excursus della malattia e quindi mi sentivo a mio agio e giocavo con le parrucche: ne avevo alcune corte, alcune lunghe altre volte mettevo il full-ar, ero serena. Poi ho cambiato lavoro e sono entrata in un contesto più strutturato, multinazionale, e mi sono presentata con la parrucca. Poi mi sentivo sempre a disagio, come se li avessi in qualche modo ingannati fin dall'inizio, no? E quindi rimanevo in questo circolo vizioso.

Quando poi mi sono liberata, abbiamo scritto il libro con Marina, il mio ex capo europeo, che è una persona che io ho stimato tantissimo, una persona con una visione molto ampia, che ha portato tanta innovazione in azienda e con il quale ancora siamo in contatto, mi ha scritto chiedendomi del libro. Quando ci siamo visti via Zoom lui era emozionatissimo, e mi ha confessato di aver capito che portavo una parrucca. E ci siamo chiesti come avremmo potuto abbattere questa barriera reciproca per cui io non mi sentivo di raccontargli questa cosa anche se avrei voluto e lui non aveva il coraggio di chiedermelo. Abbiamo fatto un po' di riflessioni proprio su quanto ancora c'è da fare in ambito professionale aziendale per abbattere queste barriere e entrare con cura, con reale desiderio di conoscere l'altro e non per un giudizio, per una critica.

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Mi collego subito a questa cosa con una domanda rivolta a entrambe. Credo che molte donne possano rispecchiarsi e riconoscersi in questo libro, soggettività che magari non si sono mai viste rappresentate nel loro essere fuori dalla norma estetica: soggettività che hanno vissuto storie simili o anche totalmente diverse dalla tua. Avevate delle aspettative su come sarebbe stato accolto il libro? Dopo la pubblicazione si è creato un senso di comunità e di condivisione?

M: Credo che sia proprio questo il valore del racconto di una storia di vita su un certo tema che ha la potenzialità di rompere uno stereotipo. Abbiamo come portato in piazza la voce di Ilaria, che però è solo una delle tante declinazioni e storie possibili legate ad un'esperienza di differenza. Come diceva prima Ilaria forse le persone possono entrare in questo libro anche per analogia, non solo per somiglianza o differenza. Da parte mia poi sicuramento c’è l’intento legato al mio mestiere, che altro non è che raccogliere e raccontare le storie di vita.

I: Dopo la pubblicazione del libro abbiamo avuto occasione di parlarne in alcuni contesti, per esempio siamo stati invitati da un'associazione che si occupa di cura, o anche da gruppi di persone con problemi oncologici, che quindi affrontano un’alopecia, ma che comunque ha un impatto molto forte sulla loro vita. Personalmente poi attraverso i canali social ho ricevuto tanti messaggi di persone che mi hanno raccontato le loro storie. Per me è una cosa molto bella, ed è anche un po’ lo scopo dl libro di far sì che le persone possano liberarsi. Qualcuno mi racconta di come il libro abbia dato loro delle idee per uscire da un momento di difficoltà, altre condividono le proprie idee, le strategie che hanno trovato loro stesse per uscire. Con Marina abbiamo l’idea di creare dei laboratori o delle possibilità di lavorare su questo tema, magari prendendo spunto proprio da alcuni brani del libro.

L’ultima domanda che vorrei farvi è sulla genesi del libro: come avete conosciuto Capovolte edizioni? Come è stata invece la fase di scrittura, o meglio di coscrittura?

M: Ilaria mi ha cercata perché un'amica comune le aveva raccontato che questo è il mio mestiere quindi si è rivolta a me per avere aiuto nella scrittura. La fase di scrittura poi è iniziata con una serie di sessioni di interviste in cui abbiamo esplorato la storia di Ilaria, e non solo. Siamo partite dalla motivazione, perché questa è stata la prima domanda che ho fatto Ilaria, come mai vuoi scrivere questo libro? E di che cosa vuoi parlare? Poi c'è stato un lavoro di strutturazione dell'ossatura, di ricerca dei punti di svolta in cui il tema dei capelli si intrecciava a tutti gli altri grandi ambiti dell'esistenza, la famiglia, il lavoro, le relazioni. Abbiamo anche in parte seguito il filo tematico della perdita, di cui Ilaria racconta in più punti del libro. Racconta proprio di questo lasciare andare, del fare spazio e vedere cosa cresce in questo spazio. Dopo aver scritto la prima versione della storia, abbiamo realizzato insieme varie stesure finchè non ci siamo trovate entrambe soddisfatte. A questo punto avevamo davvero bisogno di uno sguardo esterno, e quindi abbiamo deciso di presentarci ad una fiera con la sinossi del libro e la foto di Ilaria. La prima casa editrice che mi ha colpito è stata proprio Capovolte edizioni. Ed è stato un incontro per me bellissimo, perché è una casa editrice abitata da altre autrici, autori con temi assolutamente risonanti e affini al nostro, che ci ha consentito una crescita incredibile.

 
 

Photo credits: Umberto Tortorelli, via Facebook

 
 
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