Intervista al fotografo, sound artist e field recordist

Three imaginary boys - Adriano Zanni

19 Settembre 2023

Adriano Zanni è un fotografo, sound artist e field recordist con base a Ravenna, sua città natale. Un artista che possiede tre capacitàimmaginative che concorrono equamente a comporre un quadro uditivo e visivo (ear/eye) capace di dar voce, creando un racconto, a pagine nelle quali la parola diviene quasi un mezzo accessorio. These Important Years è la sua ultima pubblicazione fotografico-sonora, un intenso viaggio nel vissuto di un moderno esploratore dei mondi interiori.

 

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1998 - 2022: il tempo racchiuso tra due numeri, molte immagini e respiri sonori. Come è nata l'idea di racchiudere tutto questo in una pubblicazione che definire fotografico-sonora è decisamente sminuente.

Si vive sempre in bilico, in precario equilibrio, ci sono momenti in cui ti fermi a pensare come sei arrivato fino a qui, come sia stata la strada percorsa e quale sia il valore delle esperienze fatte per arrivarci. Non è tanto un tirare le somme o tracciare un bilancio, cosa alla quale sono abbastanza poco interessato, probabilmente è più un modo per trovare un punto fermo dal quale continuare il tragitto, riprendere più consapevolmente il viaggio verso quello che resta, fare tesoro di quanto hai appreso per affrontarlo.

Cerchiamo di affrontare una alla volta le suggestioni che con grande capacitàà sai trasmettere iniziando dalle Immagini. Come sempre la monocromia che sembra quasi un tuo marchio di fabbrica, la natura o quel che ne resta e ancora resiste, l'architettura preda del tempo o del gesto inconsulto di qualche umano la cui presenza si va sgretolando come l'intonaco delle strutture che inquadri. Il vuoto e deserto spazio, soprattutto interiore, il tuo sguardo filtrato dall'obbiettivo mentre a tua volta fissi lo sguardo di un tuo simile, un universo irrimediabilmente votato all'implosione che improvvisamente si illumina, avvolto nello scatto di due cuori disegnati sulla superficie di un enorme masso, argine alla furia del mare.

Sono quelli che mi piace chiamare i miei racconti d’osservazione, cerco di guardarmi attorno osservando il quotidiano e l’ordinario che mi trovo davanti, cerco di educare lo sguardo verso l’esterno, verso quello che mi circonda, ma probabilmente finisco sempre per guardarmi dentro e non sono così sicuro che sia un bene. Ad ogni modo ho messo da parte l’impeto e la voglia di velocità di un tempo, me la prendo comoda, con lentezza, cerco di soddisfare il mio bisogno di raccontare quello che vedo e sento, che poi altro non è che la mia vita che scorre e lo faccio per come ne sono capace.

Nei tuoi scatti non mancano mai gli alberi. So che sei particolarmente legato a queste misteriose creature. Parlacene.

L’albero non può scegliere dove nascere e ancora peggio dove andare, il vento o il caso possono trasportare un seme in un qualunque angolo del mondo facendo nascere un albero anche nel più improbabile dei luoghi. L’albero in qualche modo ci rappresenta, quelli che mi piace ritrarre sono quelli solitari, quelli che più assomigliano all’uomo, o per meglio dire alla sua variabile condizione esistenziale. Che siano alti e robusti, oppure storti esili e malfermi, caduti o spezzati ma sempre ostinatamente determinati nel tentativo di sopravvivere. Ci si aggrappa sempre alla vita, ci si prova per lo meno. Gli alberi siamo noi.

Colgo il link per porti una domanda relativa al notevole lavoro uscito per la 13/Silentes lo scorso anno. Mi riferisco al photo book contenente le tue immagini e il suono di Enrico Coniglio dedicato al Villaggio ENI di Corte di Cadore nel bellunese, un luogo letteralmente immerso nella natura. Come è nato quel progetto e come si è poi sviluppato.

Frequento quel luogo fin dall’infanzia, è parte della mia vita e della mia famiglia, non ho mai smesso di frequentarlo e di trovare rifugio in quel luogo. Nato dalla volontà di un imprenditore illuminato come Enrico Mattei e sviluppato grazie al genio visionario di uno straordinario architetto quale Enrico Gellner con la collaborazione di Carlo Scarpa fu concepito come uno straordinario sogno utopico. Molto fu fatto per portarlo a compimento, ma la morte di Mattei e le varie vicissitudini socio politiche italiane hanno poi limitato la finale realizzazione del progetto. Poteva essere ma non è stato, non completamente almeno. Quello che resta rappresenta comunque un meraviglioso tentativo di interazione tra la necessità abitativa dell’uomo e la natura stipulando con essa un patto di convivenza possibile e sostenibile. Vivendolo costantemente senza mai smettere di esplorarlo e sperimentarlo, l’ho guardato, respirato e ascoltato per decenni. Il frutto di questa pratica si è sviluppato attraverso la creazione di uno smisurato archivio fotografico che ne documenta la sua lenta ma inesorabile evoluzione e di molte memorie sonore realizzate attraverso la pratica del Field Recording che ho svolto in circa 15 anni. A quel punto sentivo il bisogno di fissare il progetto e di raccontarne la storia, ho affidato le registrazioni ambientali ad Enrico Coniglio che si è occupato di rendere la parte audio come una cosa compiuta, era importante per me che ci fosse l’apporto di una persona che conoscesse il luogo e le sue atmosfere, ma che in qualche modo potesse affrontare la sua narrazione sonora in modo più obbiettivo e distaccato di me, l’apporto di Enrico infatti è stato splendido e fondamentale per la riuscita del progetto. Il tutto è uscito sotto forma di Booklet fotografico con CD audio allegato grazie all’impareggiabile curiosità ed entusiasmo dell’insostituibile Stefano Gentile e la sua 13/Silentes.

Ed ecco che ci si aggancia ad un altro link che ci porta dall'ENI all'ANIC, azienda petrolchimica della tua cittàà Ravenna. Chiusa negli anni '80 dopo la fusione con ENICHIMICA, per l'appunto. Qui entriamo in territorio field recording o meglio: vero e proprio ricordo storico. Ad aprire la parte sonora del tuo lavoro, ascoltiamo un dialogo tra Monica Vitti e Richard Harris tratto da "Deserto Rosso", film di Antonioni del 1964. Poche efficaci battute riferite all'ANIC e alla filosofia politica di Corrado Zeller, il personaggio interpretato dall'attore irlandese; un pensiero luminoso, ancora attuale e devo dire, ben poco seguito. Ci racconti perchéhai scelto questo dialogo, così come il frammento di registrazione dal "Il Vero Naif" tratto da un documentario su Antonio Ligabue del 1972 di Raffaele Andreassi. Sono estremamente interessato a capire quale ruolo svolge per te l'operazione legata al suono del paesaggio di cui questo lavoro è pregno.

Tutto il lavoro su Deserto Rosso che ho svolto negli anni è stato intenso e molto viscerale, ho affrontato la materia sotto varie forme e attraverso diverse modalità, l’estetica e la poetica del film e delle sue atmosfere sono state parte integrante della mia formazione, costituiscono una costola del mio background culturale ed emotivo. Ho sempre pensato che quel frammento di dialogo rappresentasse in qualche modo la poetica del film e più in generale il pensiero di Antonioni riguardo il prorompente sviluppo industriale che stava nascendo nell’Italia del boom economico degli anni '60, un'altra di quelle cose che potevano essere, ma che poi non sono state.

Ligabue e il documentario di Andreassi, sono state una piccola folgorazione, quel documentario (cercatelo su YouTube), per certi aspetti ingenuo, ma incredibilmente affascinante e struggente, oltre a raccontarci la storia di un grande genio, ci restituisce le atmosfere della mia terra, della ”Bassa”, le atmosfere visive ed emotive del grande fiume che ritrovo fondamentalmente non troppo cambiate negli ambienti palustri e nelle Piallasse del Ravennate che vivo e frequento fisicamente nei miei lavori. Una grande parte dei miei interessi sono legati al paesaggio e alla mia volontà di raccontarlo attraverso piccole e semplici storie. Che sia visivo a sonoro poco importa, in fin dei conti ho sempre pensato che fra fotografia e registrazioni ambientali, fra visione e suono ci sia una strettissima correlazione e ci siano infinite possibilità di interazioni emotive e sensoriali. Il problema è cercare di metterle in comunicazione fra loro in modo credibile e dialogante. Non so se ci sto riuscendo, ma ci sto provando, quasi tutto il mio lavoro recente va in questa direzione.

L'immagine, il 'rumore' a lei legato e infine il suono. Sette tracce che lo ammetto affascinano e riescono a trasportare l'ascoltatore nel tuo immaginario in bianco e nero. Quali le sollecitazioni che hanno spinto il tuo lavoro compositivo e quale ruolo gioca il suono, all'interno dell’insieme di questo progetto.

Il grosso del lavoro sonoro e l’idea alla base dalla realizzazione del libro va nella direzione che ti ho appena descritto nella domanda precedente, cioè quella di mettere in comunicazione una visione con un ascolto, non necessariamente come registrazione ambientale fedele del luogo, paesaggio o persona ritratta nelle fotografie, ma come una specie di piccola colonna sonora di quella rappresentazione visiva, una commistione sensoriale che tento di compiere e rendere tecnicamente fruibile utilizzando i codici QR stampati nelle pagine del libro correlati ad ogni dittico di foto. Le tracce del disco allegato, sono più che altro una sorta di bonus, uno in più, sono un piccolo riassunto di quegli/questi anni importanti, sono markers, segnalibri temporali rappresentativi dei vari periodi musicali e narrativi trascorsi.

Alcuni vocaboli mi sono rimasti bene impressi dopo la visione del tuo lavoro: private diary, photography | phonography, ear /eye. Puoi tracciare un breve percorso di invito al viaggio usando queste tue parole?

Se ci si pensa bene fotografia e fonografia (Field recordings) sono pratiche molto simili e per certi aspetti speculari. Si tratta di descrivere, raccontare e interpretare. Rendere e restituire le proprie sensazioni. La fotografia come la registrazione ambientale sono in realtà una sorta di bugia raccontata, è difficile se non impossibile credere di raccontare la verità in senso assoluto, si racconta la propria sensazione della realtà, serve però sincerità nell’approccio e forse il fruitore finale la percepirà più compiutamente e il più vicino possibile a quello che volevi raccontare, magari completando la fruizione arricchendola con le sensazioni personali che ne ricava. Poi ci sono le analogie tecniche; la scelta di un obiettivo fotografico o di una tipologia particolare di microfono determinano certamente il risultato finale, ma la tecnica in generale è un argomento che tutto sommato mi annoia, mi interessa poco e nemmeno la conosco troppo, sono un autodidatta e ho un approccio empirico, mi interessa invece molto la parte emotiva che si sviluppa e si vive nel momento in cui ti trovi sul campo, là fuori immerso nel tuo mondo.

C'è uno scatto tra i molti, che si è fermato nel mio immaginario, è la seconda foto che si presenta alla vista aprendo le pagine di "These Important Years". Uno scatto che mi ha ricordato il titolo di un album famoso: sono tre, immagino palme, completamente avvolte in enormi teli di nylon. Tre presenze che appaiono come immobili testimoni mentre osservano un tempo destinato alla fine, la loro ma anche la nostra. Per Adriano Zanni, esiste un possibile e diverso finale per questo racconto?

Sono legato a quella foto, infatti è posta subito all’inizio del libro. Sono palme cresciute sulla spiaggia, protette per affrontare l’inverno in attesa di tempi migliori, che torni la stagione buona. Il finale del racconto può essere questo, proteggersi al meglio per affrontare il futuro, al meglio che si può e delle proprie possibilità, poi sia quel che sia.

 
 

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