Sigur Rós - Átta (Von Dur Limited/BMG, 2023)

Kominn heim/ Fyrir frið og ró - L'(in)aspettato ritorno dei Sigur Rós

20 Giugno 2023

Dopo un'attesa lunga e spasmodica esce a sorpresa (o quasi… viste alcune indiscrezioni presenti nelle interviste rilasciate dalla band stessa nei mesi scorsi) il nuovo album dei Sigur Rós. Átta ( "Otto") è appunto l’ottavo album in studio del gruppo islandese, uscito lo scorso 16 giugno a dieci anni esatti da Kveikur ed anticipato di qualche giorno dal video di "Blóðberg".

Devo ammettere se voglio essere del tutto sincero, che la lunga attesa e le conseguenti aspettative non hanno giovato al mio primo ascolto di questo lavoro il cui giudizio richiede dedizione, concentrazione, e soprattutto propensione ad entrare pienamente nell’universo sigurrossiano. L’approccio al nuovo album non deve essere fatto con distrazione, né ascoltato con le cuffiette dallo smarthphone finché si sta facendo dell’altro. Merita tutta la nostra attenzione, lo stato d’animo deve essere quello a cui il gruppo ci ha abituati nel corso degli anni, e non dobbiamo essere prevenuti nell’ascolto, a rischio di una valutazione affrettata e superficiale.

Detto ciò, posso dire che siamo di fronte ad un’opera complessa, sinfonica e maestosa grazie all’apporto della London Contemporary Orchestra diretta da Robert Ames, e ai fiati dei Brassgat í bala, combo che aveva già seguito i Sigur Rós nel tour dell’album “Með suð í eyrum við spilum endalaust” del 2008. Nella band invece ritroviamo Jónsi, il bassista Georg e l’atteso ritorno di Kjartan Sveinsson polistrumentista che si era allontanato temporaneamente nel 2012 per dedicarsi a lavori solisti e alla produzione di altri artisti.

Átta ci pone al cospetto dei Sigur Rós più eterei, più rarefatti, seppur a loro modo minimali, ancor di più di quanto sentito in Valtari del 2012, quasi una lunga suite ambient coesa ed omogenea, che si dipana per circa un’ora di ascolto in 10 tracce. L’intro di "Glóð" con la voce fanciullesca ed in reverse di Jónsi ci prepara a ciò che verrà dopo, ovvero partiture celestiali di archi, fluttuanti, spaziosi ed atmosferici. «Vieni a casa, per la pace e la tranquillità» («Kominn heim/ Fyrir frið og ró») ripete Jónsi in "Blóðberg", versi meravigliosamente rappresentati dal distopico video di Johan Renck. Una veduta aerea su un deserto, un lungo e lento piano sequenza che un po’ alla volta svela la presenza tra rami rinsecchiti e rocce sparse, di figure antropomorfe che si confondono quasi col terreno, lì accasciate come alberi abbattuti da una catastrofe naturale, fino ad ammassarsi in prossimità di un dirupo alla fine del cortometraggio. Il senso di desolazione e di angoscia dettato dalle immagini è molto forte ma è allo stesso tempo mitigato dalla pace e dalla straniante serenità e positività trasmessa dalle lyrics e dall’orchestrazione.

Nella successiva "Skel" il falsetto e i vocalizzi del cantante ci trasportano in dimensioni -altre-, raggiungendo vette forse mai sfiorate prima d’ora, confondendosi con gli archi e diventando anch’essa strumento, fino a planare nella quiete del finale in dissolvenza. In "Klettur" fa capolino una batteria sincopata e appena accennata, una delle poche  concessioni al drumming che tanto ha caratterizzato i lavori precedenti, in una traccia che a tratti ricorda i Dead Can Dance di "Anastasis". La quasi totale mancanza dell’elemento percussivo e caratteristico del loro suono è in tal caso voluto e/o dovuto all’assenza del batterista Orri Páll Dýrason uscito dal gruppo dopo Kveikur del 2013. Ma c’è anche un lato più cupo, oscuro e decisamente introspettivo, ed è quello di  "Mór", con un cantato che si sposta nel registro più basso, enfatizzando la componente malinconica sorretta e accarezzata da cori estatici. Quasi una preghiera pagana, probabilmente inno alla Madre terra, quella dal cuore pulsante, ma che a differenza del passato (discograficamente parlando) non esplode  mai, ma rimane quiescente come lo scorrere lento di una colata lavica, sprigionando calore e luce. Radiazione che invece splende e abbaglia, incanta, ci commuove come solo loro sanno fare, nella grazia di "Gold" , la cui melodia ti accarezza, ti culla e rassicura, ti spedisce pian piano in orbite rarefatte, immaginifiche, cinematiche, soundtrack di un film mai scritto. La voce di Jónsi aliena, ultraterrena, angelica come non mai, con la sua forza catartica ma gentile scava canyon nel nostro subconscio, districa i conflitti in esso reconditi, li svela, magari non li risolve, ma li porta in superficie e li libera (Ylur). Composizioni che possono essere foriere di un messaggio al tempo stesso personale ma anche universale, come esemplificato dalla copertina del disco che prende a prestito un fotogramma di una installazione del 1983 dell’artista islandese Rúrí. Un’enorme bandiera arcobaleno piantata nel terreno di fronte al fiordo appena fuori Reykjavík, prende fuoco improvvisamente, come un Rainbow che si materializza di punto in bianco, dura pochi istanti e all’improvviso scompare così come è apparso. Nessuno può avvicinarsi, nessuno può coglierlo, ma nonostante questo esiste nella sua bellezza e impalpabilità multicolore, che dimostra che le gocce d’acqua apparentemente tutte uguali, racchiudono invece una moltitudine di lunghezze d’onda, ossia quelle della luce che le attraversa, ciascuna differente, ciascuna importante. Un messaggio di speranza, un monito, un presagio? A ciascuno è consentita libera interpretazione, come d'altronde i Sigur Rós ci hanno abituato a proposito della loro musica.

Prodotto assieme al collaboratore di antica data Paul Corley, Átta è stato registrato nello studio "piscina" Sundlaugin di Reykjavík, agli Abbey Road Studios e in svariati studi statunitensi e vede il ritorno dei Sigur Rós magari non completamente innovativi e rivoluzionari,  ma in gran forma e capaci come sempre di stupirci e soprattutto emozionarci.

 
 

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