My name is R.I.O.

in conversazione con Vittorio Nistri - di Mirco Salvadori

18 Ottobre 2022

Vittorio Nistri è un musicista che non si preoccupa della notorietà, vive nel lato oscuro della luna lì dove l'ombra pulsa di reale vita e ritmo, molto ritmo se ascoltiamo il suo ultimo lavoro intitolato Ossi, come il duo che lo ha prodotto. Il musicista fiorentino è forse l'unico a non aver vissuto l'epopea della new wave che "Via! si va tutti al Tenax!", lui era ben più avanti con il passo e con l'ascolto. Uno dei registi dei Deadburger Factory, da sempre fermamente in direzione ostinata e contraria, tanto che il suo soprannome è composto dalle iniziali di un movimento politico e musicale degli anni '70 che ha segnato l'andare per musica di molti, in quei tempi.

R.I.O. : abbreviazione di Rock In Opposition.

Con un musicista come Vittorio Nistri ho scoperto si deve procedere adagio. Dietro questo nome coesistono universi sonori tra loro diversi ma comunicanti, un vero labirinto che richiede calma e concentrazione durante il suo attraversamento, sempre poi si riesca a trovare l'uscita. Studiando il tuo operare artistico ho scoperto per lo meno quattro o cinque, se ci metto anche Ossi, faccce della stessa medaglia. Sarebbe possibile ascoltare dal Vittorio Nistri multitasking sonoro un riassunto sull'operare artistico di Vittorio Nistri?

Caro Mirco, ti ringrazio molto per il tempo e l’attenzione che stai dedicando a una realtà piccola e “ai margini di tutto” come la mia. È vero che ho pubblicato in vita mia cose molto differenti tra di loro (e quelle future, alle quali sto già lavorando, saranno diverse ancora). Credo però che ci sia un tratto che le unifica tutte, ed è il tentativo di unire rock e sperimentazione. Da ragazzino mi imbattei, anche per caso fortuito, in dischi di ambedue i mondi, scoprendo di avere una consonanza interiore con entrambi. Impazzivo per i titanici riff di “Lark’s Tongues in Aspic” come per i flussi mantrici di Rainbow in a Curved Air. Mi dava i brividi il duetto vocale tra Mick Jagger e Mary Clayton in Gimme Shelter, ma altresì mi stregavano i sintetizzatori arcani di Brian Eno, Beaver & Krause, Sulle corde di Aries. Questo imprinting ha segnato tutta la mia esistenza di ascoltatore e di musicista. Del rock amo la comunicativa immediata, la fisicità, l’energia (anche emozionale), la potenzialità “narrativa”. Delle musiche sperimentali amo la presenza di una componente concettuale e/o progettuale (come nell’arte contemporanea, altra mia passione), lo spirito di avventura, la curiosità inappagabile, la potenzialità “impressionista”. In quasi tutte le mie composizioni sono presenti, in proporzioni variabili, entrambe le attitudini. Per dire: anche quando ho pubblicato musiche per solo forno a microonde processato elettronicamente, non si trattava di materiale “abstract”, né di noise brutista, né tanto meno di design sonoro fine a sé stesso in stile Aube. Erano composizioni melodicamente e/o ritmicamente definite, con (almeno nelle mie intenzioni) un contenuto emozionale e comunicativo assimilabile a quello di “brani rock”, per quanto generate con procedimenti certamente “altri” rispetto al rock. E specularmente, quando faccio rock, cerco quasi sempre di sperimentare qualche soluzione “fuori binario”, e/o di inoculare nel corpo rock schegge di altri mondi (jazz, minimalismo, contemporanea, elettronica, canzone d’autore; a volte, anche letteratura o arti figurative). Non è un modus operandi che facilita la vita, in quanto è probabilmente il modo migliore per scontentare tanto i puristi del rock quanto quelli della sperimentazione. Ma non potrei fare diversamente. Quando suono o ascolto puro rock, dopo poco mi subentra un senso di noia; ma lo stesso mi accade quando suono o ascolto troppo a lungo musica sperimentale “dura e pura”. L’ambito che non mi stanca mai, quello in cui realmente mi sento “a casa”, è la terra di nessuno al confine tra questi due mondi.

            

Ascoltando il mastodontico cofanetto di questa novella Factory dell'hamburger deceduto (Deadburger Factory - La Fisica delle Nuvole - Snowdonia 2013) si percepisce un aroma predominante, il gesto teatrale invade l'ascolto, come tra l'altro è descritto nel prezioso booklet accluso. Secondariamente si percepisce fragranza letteraria, immersa in un suono che trovo inutile catalogare, vista la sua vivace capacità di muoverti ovunque senza fatica. L'ascolto, almeno per uno come me che frequenta altrettanti luoghi alieni ma di altri mondi alieni ai più, risulta straniante. Si rimane sospesi sopra una miscela artistica che sembra provenire dal passato legato a un underground italico dei tempi d'oro che riprende forma nei solchi di questo lavoro.

Anche se come musicista ho esordito negli anni ’80, è nel decennio precedente – ovvero, nella cultura underground, non solo italica, dei ’70 – che affondano le loro radici i due miraggi che mi accompagnano da tutta la vita. Il primo è l’utopia di una arte totale, che possa superare recinti, etichette e pregiudizi. Il secondo è la speranza che l’arte possa avere una valenza antagonista. Non mi illudo più che possa cambiare il mondo, ma credo che possa almeno cambiare qualcosa in qualcuno. Aprire qualche mente, allargare qualche cuore. Questi miraggi, rimodulati sul nostro presente, sono alla base del dittico della Deadburger Factory (il cofanetto del 2013 che hai menzionato e l’album la Chiamata del 2020).

                                                        

Vittorio Nistri chi è, quale la sua storia che a quanto mi è dato capire, pur essendo di Firenze non ha nulla in comune con la classica epopea fiorentina degli '80 da tutti decantata.

Sono sempre stato un cane sciolto, fuori dai “giri che contano” cittadini. Non per snobismo ma per inclinazioni musicali non allineate, e pure per necessità della vita. Negli ‘80 Firenze era la capitale italiana del “dark”. Genere che a me non intrigava molto. Gli unici ad avermi colpito al cuore erano stati i Joy Division, nei quali avvertivo una toccante autenticità. Mentre, per dire, i Cure – amatissimi nella mia città – non mi avevano mai catturato. Tra gli artisti del momento, ai “darkettoni” preferivo di gran lunga le sperimentazioni di Brian Eno, Laurie Anderson, Glenn Branca; le nevrosi di Devo, Talking Heads, Contortions; il weird r’n’r di Julian Cope, eccetera. C’era poi un aspetto per così dire esistenziale. Io ho cominciato a suonare tardi, quando ero già in zona laurea / lavoro / matrimonio. Ogni singolo minuto dedicato a fare musica (studiare i synth, sperimentare col registratore, iniziare a comporre, provare con le prime bands) per me era prezioso, dovendo appunto conciliare studio, lavoro (oltre a tutto fuori Firenze), amore, amicizie e musica: cazzo, non so nemmeno io come abbia fatto! Sono poco “presenzialista” per mia natura, ma, anche se avessi voluto diventarlo, in quella situazione era semplicemente impensabile. Non avevo il tempo materiale per frequentare i “locali giusti”, fare autopromozione, coltivare i contatti con coloro che avevano in mano le redini degli spettacoli in città, o con i giornalisti locali. La mia band principale degli anni ’80 si chiamava Overload. Faceva una musica bizzarra e fuori dai trend cittadini. Prima o poi ne uscirà una ristampa su cd, che la benemerita Spittle Records mi ha chiesto da anni (la colpa è mia che non riesco a trovare il tempo per finire il restauro dei vecchi nastri). Mi sembra che abbia retto bene il passare degli anni, proprio perché al di fuori dei cliches dell’epoca. Nonostante l’assenza assoluta di “sponsors”, gli Overload vinsero un Rock Contest; fecero una trentina di concerti, tra cui, incredibilmente, uno al leggendario Hammersmith Odeon di Londra; pubblicarono un mini-LP e cinque album su cassetta (il penultimo dei quali vendette oltre 300 copie, quantità insolita per una cassetta underground autoprodotta); nel 1987, furono votati “gruppo più innovativo” dagli ascoltatori di Controradio (per la manifestazione “Notte degli Oscar indipendenti” al Tenax di Firenze); raccolsero ottime recensioni su tutte le riviste del periodo, dal Mucchio Selvaggio a Ciao 2001, da Fare Musica a Frigidaire. Eppure, nelle decine e decine di pubblicazioni incentrate sul rock fiorentino degli anni ’80, non troverai mai una parola sugli Overload. A parte i 4-5 nomi che hanno raggiunto grande popolarità, in questi libri vengono menzionate molte band rimaste in ambito underground - ma gli Overload mai. Neppure mezzo rigo. Ecco cosa significa “essere fuori dai giri”. Una riprova? Quando i Deadburger nel 1997 vinsero Arezzo Wave, i due maggiori quotidiani fiorentini menzionarono tutte le band che si sarebbero esibite al festival, fuorchè… i fiorentini Deadburger. Campanilismo all’incontrario. Riferisco quanto sopra solo per rispondere con oggettività alla tua domanda, ma queste cose non mi hanno mai tolto il sonno. Certamente non posso lamentarmi, sono stato un uomo fortunato. Sia con gli Overload che con i Deadburger ho avuto tante soddisfazioni, credo anche più di quanto meritassi, e pure i recentissimi Ossi stanno ricevendo un’accoglienza nettamente superiore alle aspettative.

                                                         

Approfitto per scambiare due parole sulla label che ospita questo cofanetto ma anche il vostro album Ossi. Snowdonia è storia che giunge da lontano, se ben ricordo dal 1997. Fondata da Cinzia La Fauci, Alberto Scotti e Marco Pustianaz. Come avete conosciuto e perché avete deciso di collaborare con  questa realtà, tra le  pochissime in Italia che possano ancora chiamarsi indipendenti.

Per molto tempo i miei contatti con Snowdonia sono stati, semplicemente, in veste di fan. Acquistai nel 1997 la loro primissima release, Orchestre Meccaniche Italiane (1997), scoperta grazie a una recensione (…l’importanza del giornalismo musicale!). Da allora, anno dopo anno, ho continuato a seguire l’etichetta di Cinzia e Alberto, apprezzandone la coerenza e la resilienza. Ho seguito altresì, passo dopo passo, la costante crescita artistica della loro band, i Maisie. Da parte loro, Cinzia e Alberto seguivano le mie produzioni. Il rapporto reciproco di stima è diventato di amicizia e, inevitabilmente, a un certo punto abbiamo iniziato a fare cose insieme. Dal 2013 Snowdonia è l’etichetta dei miei dischi. Cinzia (che come ufficio stampa in ambito underground fa secondo me un lavoro eccezionale) mi ha aiutato tantissimo. Si sono inoltre sviluppate belle collaborazioni incrociate: Cinzia ha partecipato all’ultimo disco della Deadburger Factory, io a vari dischi sia dei Maisie sia dello snowdoniamo NickelOdeon/InSonar (aka Claudio Milano, altro artista che stimo moltisssimo). Ad accomunarci credo sia soprattutto la direzione “ostinata e contraria”. Nell’era in cui la musica si sta smaterializzando, e in cui la prevalenza degli ascoltatori si sta indirizzando sverso la fruizione di brani singoli (magari “selezionati” direttamente da un algoritmo di Spotify), noi continuiamo a credere nel valore culturale dell’album inteso come opera d’arte unitaria, con un suo perché dall’inizio alla fine - e possibilmente pubblicata nel formato fisico, che secondo noi favorisce un diverso legame empatico tra musica e ascoltatori. Inoltre, in un momento in cui nell’ambito underground la tendenza di molti è pubblicare qualunque cosa incidano (magari poco curata, “tanto ormai le vendite sono irrisorie”), noi restiamo dell’idea che è meglio pubblicare poche, pochissime cose, ma curate con passione dedizione assolute.

              

Tra le decine di musicisti con i quali ti confronti e collabori, c'è un nome con il quale hai costruito il progetto Ossi: Simone Tilli. Parlacene.

Simone ed io abbiamo una grande intesa musicale. Iniziammo a suonare insieme nel 1999 e non abbiamo mai smesso. Ognuno di noi ha anche altre storie, ma per me è un piacere speciale fare cose con lui, e credo sia reciproco.  Non lo considero un “collaboratore” ma proprio un fratello di sangue.

A marzo del 2022 esce questo vinile e si inizia a parlarne sempre più frequentemente. Ossi ovvero la rinascita del garage rock psichedelico italiano con una forte componente ironica ma anche politica. Ciò che subito incuriosisce è la copertina sulla quale campeggia un disegno del Paz che, ovviamente, fa da insegna ad un negozio colmo di scaffali sui quali si distribuisce un ben preciso articolo culturale. Come mai questa scelta e come siete riusciti a procurarvi quel raro disegno di Pazienza.

Tramite Diego l’Alligatore, che per lungo tempo è stato il critico musicale di Frigidaire, ho contattato Vincenzo Sparagna e gli ho chiesto come fare per ottenere quel disegno. Sparagna mi ha messo in contatto con la sorella e il fratello di Andrea Pazienza, che hanno ereditato i diritti su vignette e disegni singoli (mentre quelli sulle storie lunghe sono andati alla vedova). Con loro ho negoziato i termini economici per l’utilizzo di quello specifico disegno. Ci sono voluti mesi ma alla fine la trattativa è andata felicemente in porto. Ho voluto caparbiamente quello scheletrino disegnato da Pazienza non solo perché lo vedevo perfetto per un progetto di nome Ossi, ma anche per una sorta di feeling strettamente personale. Non sono giovane; ho già più anni di quanti ne aveva mio padre quando è mancato (nella mia famiglia i maschi non sono mai stati longevi, anche se io ambirei a fare eccezione); e sono uscito due anni fa da un tumore. Eppure continuo irragionevolmente a mandare avanti valanghe di progetti, musicali (ho ben chiari in testa – e in parte già in lavorazione - decine di album futuri, tutti diversi l’uno dall’altro), familiari, esistenziali, come se avessi ancora dinanzi a me un tempo infinito. In questo senso, provo una sorta di affinità con lo scheletrino disegnato da Pazienza, che sprizza vitalità ed entusiasmo da ogni osso, senza lasciarsi scoraggiare da dettagli secondari di scarsa importanza - quale, ad esempio, l’essere morto. Aggiungo che quell’irriducibile scheletrino mi pare calzare bene come metafora per il rock, che da decenni viene dato per morto e sepolto, e invece, secondo me, ancora “vive e lotta insieme a noi” (non mi riferisco a fenomeni mainstream di finto-rock per teenagers, ma a tanti artisti che, soprattutto a livello underground, ancora ne tengono acceso il fuoco).

#Garagerock, questo l'ashtag con il quale si può segnalare e riassumere il materiale musicale trattato. Amerei tu ci spiegassi la nascita di questo progetto e il perché della scelta monotematica ben precisa, che discorda con le altre fin qui seguite. Tutta l'impostazione grafica del disco è molto "frigidairiana", dalle immagini di Ugo Delucchi che di Pazienza era un allievo, ai testi fino a giungere al suono, non dimenticando la partecipazione di Dome La Muerte (Not Moving) e Bruno Dorella (OvO). Spiegaci.

Credo che Ossi sia solo apparentemente discordante dal resto della mia produzione. Ci sta benissimo che mi sbagli (per cui, ti prego di non prendere per presunzione quello che sto per dire), ma… se per “sperimentazione” si intende il tentativo di uscire da sentieri già codificati, Ossi ha proprio questo tipo di attitudine. Il garage rock viene di solito proposto in chiave revivalista, rigorosamente “fedele alla linea” (cioè, ai suoni e all’immaginario storicizzati – direi proprio canonizzati - tra fine ’60 e inizio ’70). Viene inoltre spesso interpretato con mentalità escapista (un momentaneo rifugiarsi in epoche e luoghi “del mito”, remoti e idealizzati, per distrarsi da un presente ostile).  Ed è quasi sempre trattato, dai gruppi italiani o europei dediti al genere, in chiave anglofona e anglofila. Gli Ossi hanno tentato di elaborarne una versione che fosse… tutto il contrario. Pienamente calata nella contemporaneità, tanto sonora (vedi il ruolo dell’elettronica) che concettuale. Animata da spirito “antagonista”. E autenticamente italiana: non solo come lingua, ma anche come immaginario e ispirazioni (ogni canzone prende vita da storie italiane al 100% vere. Per questo gli Ossi amano definirsi “cantastorie”). Gli Ossi, insomma, hanno provato ad avventurarsi fuori dai binari usuali del genere. Non sta a me giudicare se ci sono riusciti, ma quanto meno ci hanno provato. In questo senso, il loro approccio è stato secondo me sperimentale. Mi permetto di aggiungere che, personalmente, ho trovato più difficile provare a fare qualcosa di diverso in questo ambito che non, che so, fare un ennesimo brano di ambient, o elettronica abstract, o impro-noise (giusto per indicare alcuni ambiti che verrebbero pacificamente etichettati come “sperimentali”). Circa il corredo grafico dell’album: è (come rilevi) manifestamente “frigidairiano”. L’ho concepito come un omaggio all’epoca d’oro del fumetto underground, che fu uno dei veicoli di quella controcultura di cui oggi ci sarebbe bisogno ancora più che allora. Il fumetto ha avuto un ruolo importante nella mia formazione. Nella mia famiglia e nella mia scuola non si parlava mai di politica o di società; ad aprirmi la mente, in questo campo, furono gli articoli di Linus prima, e di Frigidaire poi.

Tutto il tuo lavoro è basato sul principio dell'opposizione al sistema, mi esprimo come un tempo giusto per entrare in argomento (e scusa la rima che ben potrebbe apparire in uno dei vostri testi). Rock in opposition per dirla con Henry Cow, ti senti vicino a questo antico pensiero non solo musicale ma anche apertamente politico?

Si, per me il R.I.O. è stato, è, e sarà sempre, una passione totalizzante, per la sua capacità di ricondurre ad unità una pluralità di generi musicali diversi, e per lo spirito sinceramente antagonista che lo animava (che poi sono i due “miraggi” che stanno alla base della Deadburger Factory). Ho una ammirazione infinita per artisti come Area, Henry Cow, e su tutti l’immenso Wyatt – fermo restando che io, a simili dei della musica, non mi sentirei degno neanche di allacciare le scarpe. Lo sforzo mio e dei miei compagni di avventura è stato quello di trasportare quell’attitudine nella contemporaneità. Musicale (esempio: il ben diverso ruolo odierno dell’elettronica) ma anche sociale / politica / autobiografica.  Vivo nel presente, ed è con quello che cerco di confrontarmi, come musicista e come essere umano.

Deadburger Factory, Ossi e le altre tue numerose attività artistiche. Quale il loro prossimo futuro?

Ti rispondo con un “piano quinquennale”! L‘anno prossimo uscirà “Vittorio Nistri / Filippo Panichi”, album senza rock e senza canzoni, solo strumentale, crocevia tra elettronica sperimentale e musica contemporanea da camera. Seguiranno “Tre Lati Di Un Cerchio”, cofanetto di tre cd (“Gemmazioni”, “improvvisazioni”, “Vessazioni”) con altro mio materiale strettamente sperimentale e “non rock”; la ristampa restaurata dei due miei principali progetti anni ’80, ovvero Overload e Nistri/Fiori Carones; e poi, ritorno al rock con il dittico “Flamingos Forever / Flamingos Jam” a nome Dead Freaks Society (uno psychomusical ispirato a John Waters e Divine, al quale lavoro da decenni). Dopo tornerà la Deadburger Factory, con “La Stanza delle Meraviglie del Dottor Deadburger”. Ho già nei miei hard disk valanghe di materiale per questi progetti, ma la loro tempistica di ultimazione e pubblicazione è ignota anche a me stesso.

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