Venezia78 - "Cenzorka", essere 107 madri in carcere

Tra il documentario e la narrativa, la storia di una prigione in Ucraina. Ci sono solo donne. Sono donne le guardie, le infermiere, le detenute di ogni età.

4 Settembre 2021

Leysa (Maryna Klimova), una nuova detenuta, sta partorendo in una fredda stanza d'ospedale sotto lo sguardo vigile di Iryna (Iryna Kiryazeva), la guardiana della prigione. La relazione tra queste due donne, ma in realtà tra tutte le detenute e la guardiana, è il punto focale di questa docufiction. Un rapporto che non è il classico binomio vittima-carnefice, perché ciò che conta sono le donne che siano detenute, infermiere e guardie carcerarie, donne di tutte le età, mogli e vedove, figlie, sorelle, donne incinte e con altri bambini. Se non fosse per il colore dell’uniforme, a volte risulterebbe difficile distinguere le une dalle altre.

È un film sui tanti e svariati aspetti della maternità, diretto da Peter Kerekes e inserito nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia. Sono storie reali quelle che scorrono nelle diverse immagini, le vite delle donne incarcerate che vivono nell'Odessa Correctional Facility Number 74, una delle due prigioni ucraine dove le donne incinte possono scontare la pena con i loro bambini. 

È un film crudo, forte, che fa percepire il dolore di una donna che lotta quotidianamente per non perdere l’istinto materno ma che allo stesso tempo sa, dal primo giorno che è in carcere, quali sono i brutali termini del regolamento. Dopo che il bambino compie tre anni, sarà mandato in un orfanotrofio e separato per sempre dalla madre. Se una donna è fortunata e la sua condanna finisce intorno al terzo compleanno del bambino, può chiedere la libertà vigilata. Se una donna ha una famiglia alle spalle che può intercedere e prendersi cura del bambino ha qualche speranza di non rompere alcun legame. Altrimenti, немає, no.

«Volevo che il film rappresentasse una testimonianza autentica e collettiva delle madri recluse: la solitudine che queste donne vivono e provano quando si vedono portare via i propri figli e finiscono la loro torta di compleanno in preda alla disperazione; i rari barlumi di felicità che le donne vivono quando dimenticano, anche solo per un breve momento, di essere in prigione», sono le parole del regista che nel carcere di Odessa ha passato lunghi periodi tra il 2015 e il 2020.

I tempi sono regolati dalla routine quotidiana delle protagoniste, si lavano, dormono e lavorano insieme mentre le ore si fondono in giorni e i giorni in settimane. La privacy non esiste, che sia una telefonata, che sia una visita medica, che sia una lettera ricevuta, che sia il motivo per cui sono finite in carcere, infatti nei 93 minuti di pellicola vengono messi a nudo i motivi per cui queste donne sono state condannate: la maggior parte ha ucciso il marito, di queste il 90% l’ha fatto per gelosia. 

Ed è così, guardando dritto nella telecamere che Leysa, Alina, Olena, Oksana, Nadiya e tante altre confessano perché hanno compiuto un omicidio, è questa l’essenza del film che però ti lascia con l’interrogativo se chi parla stia provando rimorso o stia chiedendo perdono.

 
 
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