Ouroboros dei Golden Rusk

Two is better than five

6 Maggio 2021

A 5 anni dal precedente lavoro What Will Become Of Us? il progetto Golden Rusk torna con Ouroboros.
Cosa ho da dire di quest’album?
Sferzante, energico, dirompente, sano death metal ai limiti del technical.
Cosa mi impressiona? Che di tale progetto fanno parte solo due individui: Maher e Josh.

Maher è come un novello Varg Vikernes, o ancora meglio, un novello Trent Reznor.
Già, perché se non fosse per lui la band non starebbe nemmeno in piedi: polistrumentista da strapazzo, si occupa di tutto; dalla batteria al basso, dalla chitarra agli arrangiamenti. Non è il suo unico side project (vedere Diechotomy) ma è sicuramente quello più articolato e dalle maggiori soddisfazioni. 

Perchè ho citato Trent? Perché a differenza del ragazzo di Bergen, diventato più icona per i fatti commessi che per le produzioni (a parte Filosofem, vera pietra miliare della seconda ondata black metal), la musica portata da Maher qualitativamente parlando è buona, proprio come quella del leader dei Nine Inch Nails (anche se bisogna ancora compiere numerosi passi lunghi e ben distesi e si vadano a trattare due generi che seppur della stessa famiglia, totalmente differenti). E proprio come Trent, di recente Maher si è avvalso di un aiutante: in questo caso di Josh Marchand, direttamente dal Michigan.

Una collaborazione ultra-continentale che ci porta nuovamente nella terra degli Asi, almeno con la mente. Anche se la voce di Josh ricorda dannatamente quella di Johan Hegg, quel gigante norreno che comanda gli Amon Amarth, a dirla tutta…

Ma parliamo del disco.

L’uroboro, simbolo del rinnovamento perpetuo e della natura ciclica, sembra trovarsi in contrapposizione con ciò che è l’album di per sé: una profonda caduta senza fine verso l’abisso.

The Calm, “la calma” tradisce in verità l’avvenire; la traccia successiva non è di fatto una sonata post-apocalittica fatta col pianoforte ma una rullata continua, priva di tregua. Rise è la vera apripista, anche se ne son rimasto leggermente deluso per il calo del master dalla traccia precedente e le similitudini abbastanza evidenti (magari non volute eh) con Awaken della virtual-real band Dethklok.
Ma non ci si perde troppo, e dopo una The Chase che mi ha lasciato con l’amaro in bocca iniziano ad arrivare le soddisfazioni: la prima con Endless Suffering, che prende il corposo carico dato da batteria e voce e lo infarcisce di lead imponenti, variazioni ritmiche non da poco e un riff iniziale che pregusta già d’assalto; la seconda con Blood Spawn, che smorza la cavalcata proiettandosi nell'intermezzo con sonorità cupe, ai limiti del doom (vedere anche l’incipit di A Means To An End) e pig-scream che si fanno tuttavia molto più accentuati in Marionette, la traccia più “estrema”, se così vogliamo metterla, dell’intera produzione.
A concludere l’album ci pensa The Disease, non un capolavoro, ma una degna conclusione di questo Ouroboros.

Quindi, tirando le somme?
Abbiamo fra le mani un album deciso e potente, che nonostante ammicchi spesso ai grandi riesce comunque a mantenere una sua dinamicità.
I testi, come la struttura stessa, sono propri del death metal senza troppe frivolezze, ma si ha comunque un prodotto interessante, ben sopra la sufficienza, soprattutto considerando il fattore one man band (tolta la funzione di Josh al vocal).

Un grazie quindi a Volcano Records e Dark Hammer Legion che ne hanno permesso la pubblicazione e a Maher, di cui non mi è pervenuto ancora il nome (vero e non d’artista), al quale chiederei di non tardare con l’uscita di un futuro terzo LP e se gli son spuntate ulteriori braccia per star dietro a tutto il caos (positivo) da lui generato.

Buon ascolto metallers!

 
 
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