Un filo rosso, anzi arancione

un racconto tra calcio, musiche e innamoramenti adolescenziali

11 Agosto 2020

Non riuscivo a dormire. Riaprii gli occhi arrossati dalla stanchezza e vidi il rosso vivo dell’armadio nella mia camera sfocato, sbiadito, come era oramai diventata la storia che mi legava a lei. Pensai che era ora di volgere lo sguardo altrove, di staccarsi da quell’ossessione per un amore che non trovava corrispondenza. Dovevo riprendere il filo della mia vita prima che si spezzasse.

C’era un filo rosso, anzi arancione, che mi legava al mondo di prima che arrivasse lei.
Un filo arancione che iniziò con un’immagine, uno dei primi ricordi nitidi che avevo: un’automobile che entra nel cortile di casa, nuova, colore arancio. Scende mio padre fiero e soddisfatto perché per sostituire la vecchia 500 rossonera, si è comprato un maggiolino arancione. Il colore non era un caso, era il colore della squadra di cui era dirigente, o meglio il tuttofare. Nelle piccole società calcistiche essere dirigente vuol dire fare i panini, il tè, pulire la sede e gli spogliatoi, sistemare il terreno di gioco e soprattutto scorrazzare in giro i giovani calciatori con il furgone, arancione pure quello, naturalmente.
C’era una vetrinetta in sede dove erano esposti i trofei e le coppe vinte, ma l’angolo che più attirava la mia attenzione era dove c’erano gli storici cimeli degli albori della società calcistica. In bella vista trovavi un pallone di cuoio, una tuta e un paio di scarpe, il tutto cucito a mano con uno spesso filo arancione che immaginavo venisse dallo stesso “spagnoletto”, da quel rocchetto si vedeva mal nascosto appena dietro quegli oggetti della memoria.
Erano, casualmente, gli inizi del calcio totale degli “Orange” olandesi. Diceva colui che di quella filosofia di gioco era il simbolo, Cruijff: «giocare a calcio è molto facile, ma giocare un calcio facile è la cosa più difficile che ci sia». La trovavo una frase bellissima, che tanto riesce a dire a proposito di uno sport le cui dinamiche sembrano spesso sfuggire, soprattutto a chi non lo ha praticato.
Ogni squadra ha degli equilibri complessi, deve assemblare talenti diversi, saperli mescolare in un amalgama che contiene svariati colori per farli diventare uno solo.

Prendiamo un colore a caso, l’arancione appunto, che è una mescolanza di giallo e rosso. Il colore Giallo è simbolo della luce del sole ma anche della conoscenza e dell’energia, sia dell’intelletto che nervosa. Il colore Rosso invece è simbolo del sangue, il flusso vitale che trasporta l’energia nei muscoli e nel cervello, questo colore simboleggia l’estroversione e la forza di volontà. Capite che se giustamente dosate le due componenti si completano. Il risultato è il colore Arancione simbolo di armonia interiore, di fiducia in sé stessi e negli altri. Collocandosi tra il Rosso e il Giallo, l’Arancione simboleggia l’equilibrio i due colori e tra le loro qualità, esaltandole.
Come ci ha insegnato Osvaldo Soriano ci sono tre generi di buoni calciatori. Quelli che illuminano gli spazi liberi, li vedi e sei contento, ti senti soddisfatto quando la palla crea le giuste geometrie, fanno funzionare gli schemi di gioco. Poi ci sono quelli che con il loro continuo movimento all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, quelli ti prendono di sorpresa. E infine ci sono quelli che creano un nuovo spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. Quelli sono i profeti. I poeti del gioco. Alla squadra che possiede tutti questi tre tipi di giocatori riesce quell’alchimia chiamata “calcio totale”, che viene idealmente identificato con il colore arancione.
Quando ero preadolescente, l’unica cosa che m’interessava era giocare a calcio, anche se non ero precisamente un talento, e non ero nemmeno mai stato un tifoso, anzi in genere ero infastidito dal tifo, ma il calcio, quando continuava ad essere l’arte dell’imprevisto, quando riusciva ad invertire ogni pronostico, ancora mi divertiva. Succedeva molto di rado nel calcio professionista, succedeva più spesso nelle giovanili dove la tattica e il risultato ancora non hanno completamente sostituito l’allegria di giocare per giocare.
Non mi è mai interessato vincere, semmai ero interessato a convincere me stesso e gli altri di non essere un perdente solo perché non ero ossessionato dalla vittoria, ero solo un “non competitivo” in un mondo di competitivi, ed era bello e un privilegio essere diversi.


Nonostante il mio disinteresse per le vittorie capitò anche a me di vincere contro ogni pronostico: una volta con gli allievi della piccola squadra di provincia dove giocavo, gli arancioni del Fossalta, in una finale di un torneo estivo contro i campioni d’Italia in carica di quella categoria. Era il Cesena allenato da un certo Arrigo Sacchi che da lì a qualche anno sarebbe diventato il mister che avrebbe cambiato il volto del calcio italiano, portando il calcio totale nel paese del catenaccio e vincendo scudetti e coppe campioni. Probabilmente, grazie anche agli olandesi che aveva in formazione, sarebbe diventato il più “Orange” dei tecnici italiani.

Ebbi pure la fortuna di segnare l’unico gol della partita con un tiro da tre quarti campo che sorprese il portiere fuori dei pali. Il resto della gara la mia squadra lo passò rinchiusa nella sua area facendo un catenaccio serrato, ma che alla fine ci fece portare a casa il risultato. A fine partita Sacchi era così furibondo che si rifiutò di dare la mano al nostro allenatore, reo di aver impostato la partita nell’unico modo che poteva, visto i valori in campo: difesa ad oltranza. La rabbia probabilmente gli passò dopo poco quella partita. Lui e suoi giocatori, l’avranno dimenticata presto a suon di vittorie. Quella piccola grande soddisfazione invece a me rammentava che nel calcio, come nella vita, può succedere che “perda il migliore”. Non succede spesso, ma il bello di questo sport sta tutto lì, ed è questo motivo per cui, nonostante sia sempre lo stesso gioco, il calcio riusciva ancora ad appassionarmi.
Questi pensieri, le vittorie, le sconfitte ebbero il pregio di farmi passare l’insonnia, di vincerla e di farmi cadere finalmente nel sonno e forse pure nel sogno.
M’addormentai fantasticando che, se può succedere che perda anche il migliore, vuol dire che posso vincere anch’io. Anzi che potevo ancora convincere te a tornare da me. Attraverso un bel mazzo di tulipani arancioni, naturalmente.

 
 

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