Phill Reynolds: "A Sudden Nowhere", recensione

Recensione del nuovo album del cantautore vicentino

4 Febbraio 2021

Una calda schitarrata acustica ci introduce nell’atmosfera del nuovo disco di Phil Reynolds, folkskinger cresciuto tra i monti vicentini ma figlio dell’immaginario americano. La voce profonda canta storie di vita vissuta, la chitarra alterna accordi e fingerpicking, l’armonica pennella disperazione desertica.

Novello Bad Seed, Silva Cantele, vero nome di Phil, propone dieci canzoni di dolorosa consapevolezza e desolazione, nate in parte durante il lockdown. Le prime due tracce, Is It Painful e They Call Him Rocknroll, mettono subito le carte in tavola: colpisce l’interpretazione vocale e chitarristica, più che la scrittura, fedele alle radici blues e alt-country. La voce tocca vibrazioni profonde e ha una densità ricca di pathos. Altrettanto centrato il suono, corposo e sporco come in certo Tom Waits, di cui sembra figlia Time is Now.

A caratterizzare l’ambiente sonoro sono soprattutto le chitarre elettriche, che gemono e lanciano feedback in lontananza, dipingendo cieli plumbei e distese di wilderness allucinata. Il momento più intenso, da questo punto di vista, è la cavalcata nel cuore della tracklist, You’ll Be Fine.

La ricerca sonora è evidente anche in Officer: la ritmica è affidata ad una drum machine, la voce diventa un loop, in quello che è insieme il pezzo più sperimentale, più interessante ma anche orecchiabile del disco.

A sorpresa arriva una bonus-track: Nancy di Leonard Cohen. Riascoltare quelle parole strazianti, quella melodia perfetta, aiuta a rivedere in controluce tutte le tracce precedenti. No, non è un album folk, è un album post. Non è un disco di canzoni, è un disco di atmosfere. Non è un disco di immagini, ma di immaginari. 

Forse non è più possibile scrivere un album folk. Quello che è ancora possibile fare, Phil Reynolds lo fa molto bene.

 
 

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