Tra black metal, Neil Young e spaghetti western

Endless twilight of codependent love, il nuovo album degli islandesi Sólstafir

15 Gennaio 2021

Post-rock e post-metal sono termini strani, generi indefiniti e nei quali rientrano band che tra di loro hanno apparentemente poco o nulla in comune. A volte viene anche il dubbio che siano etichette confezionate per gruppi che non si sa bene come inquadrare in altro modo.

Per i Sólstafir (Raggi crepuscolari in islandese) vale esattamente quest'ultima definizione. È infatti arduo definire quale genere proponga la band islandese, così variabile tra sezioni ambient, riff hard rock, ancora occasionali sfuriate black metal, e atmosfere che fanno venire in mente qualche film Western: Neil Young che incontra il black metal, prendendo in prestito una definizione data dalla band stessa.

Il gruppo nasce a Reykjavík nel 1995, proponendo inizialmente un classico viking black metal. Il primo album, Í Blóði og anda (Nel sangue e nello spirito del 2002), corre sui binari del genere, tra pezzi come Undir Jökli (Sotto il ghiacciaio) e la title track che si incastrano appieno nel tradizionale black norvegese. Tuttavia, già da canzoni strumentali come Í Víking e soprattutto dal successivo album Masterpiece of Bitterness, del 2005, si iniziano a intravedere alcuni di quelli che saranno i tratti distintivi della band e che la porteranno ad abbandonare quasi completamente il black per approdare a qualcosa di completamente differente.

Il successivo Köld, del 2009, può essere a tutti gli effetti considerato come l'album della transizione al post-metal, presentando pezzi, come Necrologue, che si distinguono anche a livello lirico e rappresentano canzoni fondamentali quasi sempre suonati live.

Con i successivi Svartir Sandar (Sabbia nera) e Ótta (Paura), rispettivamente del 2011 e del 2014, la band arriva a definire sempre meglio le caratteristiche che contraddistinguono il proprio sound: la voce, a tratti quasi un lamento, del frontman e chitarrista Aðalbjörn Tryggvason, in grado tuttavia di ritornare allo scream degli inizi; i riff in pieno stile hard&heavy e le classiche armonizzazioni, tanto care al pubblico dell'heavy metal, con il secondo chitarrista Sæþór Maríus "Gringo" Sæþórsson; le lunghe sezioni ambient appena suonate, con l'ampio uso dell'e-bow (un dispositivo per chitarra che permette di ottenere un suono che ricorda quello di uno strumento ad arco o a fiato), nelle quali è impossibile non immaginarsi a camminare sulla famosa Hringvegur, la cosiddetta  Ring Road che attraversa l'intero perimetro islandese, tra vulcani, ghiacciai e larghe distese di nulla.

Forti di questo bagaglio, i Sólstafir pubblicano il 20 Novembre 2020 per l'etichetta Seasons of Mist, il loro nuovo album Endless twilight of codependent love, che segue di tre anni il precedente Berdreyminn. Come abbiamo visto, l'album è il primo a portare un titolo in inglese da quindici anni, e tale idioma appare poco anche tra le canzoni dell'album, dato che un solo pezzo, Her fall from grace (estratto come primo singolo), è cantato in inglese, mentre tutti gli altri pezzi sono in islandese, rendendo ardua la comprensione per quelli di noi che non rientrano tra le circa 300 mila persone al mondo in grado di comprendere tale lingua.

I primi due pezzi, Akkeri (Ancora) e Drýsill (Demone), presentano tutte le caratteristiche discusse in precedenza. Abbondano nei due pezzi di apertura le sonorità ambient Western, e il look della band, fatto di stivali e cappelli da cowboy sembrerebbe confermare l'impressione. Interessante la sezione di Akkeri aperta dal ritmo in cowbell, un dichiarato tributo al rock anni '70, ai Thin Lizzy e ai Kiss.

Dopo i primi due brani, sorge spontaneo chiedersi perché nessuno abbia ancora commissionato una colonna sonora alla band.

Dalla successiva Rökkur (Crepuscolo) inizia a emergere la seconda anima dell' album e la dimostrazione che, sebbene i Sólstafir abbiano elaborato nel tempo una propria formula vincente, siano ciononostante in grado (e abbiano il coraggio) di sperimentare ancora, evitando di riproporre la stessa formula ben rodata. La canzone si apre con una sezione di archi, ed è caratterizzata dal cantato (in islandese) quasi recitato di Aðalbjörn: per questo motivo Il pezzo può risultare ostico anche per l'ascoltatore più ben disposto. A questo punto, l'album diventa un'alternanza di brani in classico stile Sòlstafir alternati da canzoni che, come Rökkur, si staccano dai binari ben noti: è il caso della successiva coppia di pezzi, Her fall from grace e Dyonisus. Dove la prima è chiaramente in linea con lo stile della band islandese (per quanto più diretta e orecchiabile, anche per il «Na na na» nel ritornello, piuttosto inconsueto nel metal), la seconda è un inaspettato ritorno alle sonorità black metal old-school dei primi album: Aðalbjörn canta in uno screaming che non si sentiva da svariati anni nella discografia della band. Di nuovo, la successiva Til Moldar (Alla polvere) ritorna nel seminato, mentre Alda Syndanna (L'età del peccato) ha un riff portante dal retrogusto alternative. Segue Ör (Cicatrice), in cui a sorpresa la band si lancia in un blues rock terzinato molto anni '70. Chiude la migliore del lotto, Úlfur (Lupo), nella quale c' è un po' la summa del disco: si parte da un riff che ricorda i Deftones, per poi passare a sonorità  NWOBHM, fino ad un assolo hard rock che ricorda quello di November rain.

Dal punto di vista lirico, come detto risulta difficile comprendere i testi. Sulla base di varie dichiarazioni della band, si evince come buona parte dei pezzi di questo Endless twilight of codependent love trattino effettivamente di questo argomento: la codipendenza affettiva. In generale, la codipendenza affettiva è  una relazione patologica tra due individui che necessitano l'uno dell'altro per sopravvivere. Un vincolo di coppia che offusca i bisogni e desideri dell'individuo, incatenandolo all’altro e  soffocandone l'individualità.

Di questo sembrano trattare pezzi come Drýsill, Rökkur, Her fall from grace e Úlfur, tutte caratterizzate da figure femminili tormentate psicologicamente e/o fisicamente da uomini con i quali hanno una relazione, che termina con la morte dell'uno o dell'altro partner.

Infine, vale la pena spendere due parole sull'immagine di copertina, un quadro di Johann Baptist Zwecker del 1864 rappresentante la fjallkonan, ovvero la signora della montagna, incarnazione femminile dell'Islanda. 

Per concludere, siamo forse di fronte all'apice compositivo della band. Un lavoro maturo, complesso, che necessita di svariati ascolti per poter essere assimilato ma sicuramente consigliato a tutti i fan del post-metal.

 
 

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