Shirley Jackson

Come vita domestica e horror vanno d'accordo

9 Dicembre 2020

Il mio primo libro di Shirley Jackson, Abbiamo sempre vissuto nel castello, lo lessi a 14 anni. L’ho riletto qualche mese fa: ricordavo molto bene le torte e le conserve di Constance, una delle due sorelle Blackwood, le protagoniste, e la villa che io mi immaginavo sempre illuminata da dorati raggi di sole. Non ricordavo per nulla, invece, o forse non avevo proprio compreso, l’inquietudine che Jackson riesce a trasmettere, e che ti porta a voler chiudere il libro, o in alternativa a finirlo il prima possibile per dare un senso a tutta quella suspense. Certo, i pasticcini e i polli arrosti di Constance sono descritti in maniera così appetitosa che conservano il loro fascino, ma vi è qualcosa di oscuro in tutto il libro, e non solo in questo.

Shirley Jackson, scrittrice americana vissuta tra il 1916 e il 1965, solo negli ultimi anni sta vivendo una riscoperta da parte del grande pubblico, soprattutto grazie alla celebre serie Hill House, ispirata dal romanzo L’incubo di Hill House. Romanzo in cui una delle protagoniste, Eleanor, viene coinvolta in un episodio di poltergeist, ovvero una pioggia di pietre. Esattamente come Carrie, nell’omonimo e famosissimo romanzo di Stephen King, che non per niente si dichiara seguace e grandissimo ammiratore di Jackson.

I suoi romanzi, e soprattutto i suoi racconti, non possono essere definiti semplicemente horror. C’è senza dubbio una grandissima dose di terrore tra le pagine delle sue opere, ma sono allo stesso tempo incredibilmente coinvolgenti. La vera chiave della tensione che percepiamo leggendo sta nel fatto che in qualsiasi momento potrebbe succedere qualcosa di terribile, che fa crollare il delicato equilibrio tra ragione e follia dei personaggi.

Troviamo poi tanto della sua vita, in queste opere. Innanzitutto, il rapporto conflittuale con la madre, figura soffocante della sua infanzia e adolescenza, da cui fuggiva grazie alla scrittura. Con il suo primo romanzo, The Road Through the Wall, Jackson si toglie un po' di sassolini dalle scarpe, rappresentando una madre tremenda che probabilmente molto di avvicinava alla sua. D’altronde, per sua stessa ammissione, «il primo libro è quello che devi scrivere per ritornare ai tuoi genitori. Una volta che te lo sei tolto dai piedi, allora puoi davvero cominciare a scrivere libri».

Essere moglie e madre e quindi, negli anni Cinquanta, casalinga, è un’altra esperienza fondamentale che la porta ad essere la scrittrice che è. Il marito, Stanley Hyman, scrittore di saggi, la sosteneva e la difendeva nel suo lavoro di scrittrice, ma allo stesso tempo continuava a tradirla e pretendeva da lei che fosse anche la perfetta casalinga. Questo ruolo stava molto stretto a Jackson, a cui sembrava di vivere due realtà che mai avrebbero potuto convivere davvero: quella della casalinga e quella di scrittrice, che trovava per lo più spazio nella sua testa, vista la mole di lavoro che casa e figli e un marito esigente richiedevano. Ma proprio questo suo vissuto fa delle sue opere uno specchio per comprendere la condizione femminile nella società del tempo.

Le protagoniste di Jackson sono tutte donne: donne volubili, dalla personalità indefinita, incapaci di relazionarsi con l’esterno e quindi isolate. Cercano di crearsi un loro mondo in cui stare al sicuro, ma nel momento in cui inevitabilmente vengono a contatto con l’esterno, per loro volontà o per cause di forza maggiore, ne vengono sopraffatte, cedono all’ansia che le caratterizza. Cercano una guida ma finiscono per ritrovarsi nel panico.

Possiamo dire che Jackson fa un’analisi in forma narrativa dell’alienazione delle casalinghe di cui all’inizio degli anni ’60 Betty Friedan parlerà nel suo saggio La Mistica della Femminilità. Lo spaesamento, la delusione di fare a tempo pieno un lavoro non riconosciuto da nessuno, i disturbi mentali (la cosiddetta isteria), il tentativo di trovare uno scopo al di fuori del focolare, sono i sintomi del “problema inespresso” delle casalinghe degli anni Cinquanta e Sessanta, secondo Friedan appunto dovuto ad un progetto di condizionamento della società che porta le donne a rinunciare ai loro sogni per chiudersi in casa.

La stessa Jackson diventa vittima di questa situazione, che la porta alla morte ad appena 48 anni a causa di complicanze dovute all’alcolismo ma anche all’uso della Mother’s Little Helper –un cocktail di antidepressivi e barbiturici, molto diffuso tra le casalinghe.

Parallelamente a questa passività, a caratterizzare sia Eleanor ne L’incubo di Hill House, che Mary Catherine in Abbiamo sempre vissuto nel castello e Elizabeth in Lizzie, vi è il lato stregonesco, ovvero il potere femminile che spaventa gli uomini. Anche per questo la casa diventa allo stesso tempo rifugio e trappola: rifugio perché il focolare è l’ambiente in cui la donna è padrona, trappola perché non riesce ad emanciparsi dalla casa e avere una vita serena al di fuori di essa, che diventa quindi una gabbia d’oro

Purtroppo le opere di Shirley Jackson sono tradotte e pubblicate in minima parte in Italia, e con molti rimaneggiamenti rispetto all’organizzazione originale, soprattutto per quanto riguarda le raccolte di racconti. L’invito da parte mia è però di scoprire quest’autrice, magari partendo da La Lotteria, breve racconto che non ho ancora citato, ma che in effetti portò Jackson alla fama e che vanta il maggior numero di lettere di risposta mai avuto dal The New Yorker, rivista che lo pubblicò. Dopo averlo letto capirete il perché di tanto scandalo, e vi sarete irrimediabilmente immersi nelle atmosfere inquietanti di Shirley Jackson.

Shirley Jackson

 
 
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