Una casa per l'anima in centro a Marghera

Intervista a Stefano della libreria Heimat

12 Ottobre 2020

Scorrendo il profilo Instagram di questa libreria nuova di zecca nel centro di Marghera, ci si sente subito a casa, proprio come vuole il nome. Le foto mostrano un ambiente piccolo ma accogliente, pieno dei colori delle copertine dei libri esposti con cura sugli scaffali che, come scrivono i librai in un post, sono stati costruiti ad hoc secondo il principio dell’autocostruzione. Insomma, uno spazio che fa venire voglia di fare un salto e, soprattutto, di fare due chiacchiere con chi ci lavora tutti i giorni.

Siete una libreria appena nata, dopo questi mesi così strani. Raccontateci un po' la storia di questo spazio: quando è venuta l’idea? Prima, dopo, durante il lockdown? Se prima, avete dovuto rimodulare il progetto per adattarlo ai nuovi tempi?

Io e il mio socio ci siamo conosciuti nella cooperativa sociale dove lavoravo, e dove lui lavora tutt’ora, quindi veniamo entrambi dalla dimensione del lavoro sociale come educatori. Un paio di anni fa è nata l’idea di una libreria, idea inizialmente molto vaga, che piano piano si è concretizzata.

Io sono di Marghera, vivo qui praticamente da sempre, mentre Ivano proviene dalla provincia di Treviso. Non conosceva Marghera, ma se ne è praticamente innamorato conoscendo la vitalità del quartiere. Quindi quando ho portato l’idea di aprire la libreria qui, lui era assolutamente convinto che fosse il posto giusto.

Avremmo dovuto aprire a maggio, poi abbiamo dovuto ritardare per ovvi motivi, e abbiamo aperto il 2 luglio. Abbiamo deciso di aprire, nonostante luglio forse non sia il momento migliore per lanciare un’attività, perché ci piaceva l’idea di farlo in un momento in cui sembrava di uscire da quella situazione, e quindi vivere con la comunità la ripresa.

Non abbiamo dovuto propriamente rimodulare il progetto. La nostra libreria è piccolina, avevamo immaginato che potessero esserci una ventina di persone durante le presentazioni; ovviamente al momento non è possibile. Forse usciamo più noi dalla libreria, anche se lo avevamo comunque messo in conto: l’idea è quella di unirci a quello che viene organizzato, oppure organizzare noi eventi in piazza. Questa è l’unica cosa che abbiamo dovuto rivedere, sperando che prima o poi si riesca a ritornare agli incontri in libreria.

Perché questo nome? Heimat significa “casa”, “patria”…

Come in tutte le situazioni in cui bisogna trovare un nome a qualcosa, sono entrate in atto tutta una serie di modalità di brainstorming e di ricerca. Stavamo leggendo un libro di Alexander Langer, un personaggio purtroppo mancato giovane, pacifista, ambientalista, una persona davvero attiva e concreta, che è diventato un punto di riferimento per noi. Non per niente uno dei nostri segnalibri riporta una sua frase.  In questo libro abbiamo trovato la parola “heimat”. Da lì è iniziata una ricerca sul significato: non è una parola semplice da tradurre, è quasi impossibile farlo con un termine solo. Molti la traducono come “patria”, ma non è esatto perché non vi è all’interno la radice di “padre”. Significa invece “casa”: casa non nel senso di luogo fisico, ma di luogo in cui mi sento protetto, accolto. Ha un significato molto denso, per questo abbiamo deciso di sceglierlo nonostante non sia facile e vada spiegato, per non fermarsi a patria, che rimanda ad un certo immaginario e ad una certa cultura. Abbiamo poi conosciuto virtualmente la scrittrice di una graphic novel, intitolata appunto “Heimat”. Ci siamo confrontati sul messaggio che lei ha dato, che è poi quello che abbiamo voluto dare anche noi. L’heimat è il luogo dell’anima.

Anche alla luce del nome che avete scelto, qual è l’idea di libreria che vi piacerebbe portare avanti?

Alla luce del nome, molte persone hanno poi riconosciuto questa parola entrando in libreria. La libreria non dev’essere solo un negozio, ma un contesto grazie a cui aprirsi su altro e confrontarsi, per organizzare delle cose. Marghera è molto fertile da questo punto di vista, rispetto all’intercultura, all’ambiente, alla casa. Sono tematiche che sentiamo estremamente vive. Noi vogliamo porci come attori di queste dinamiche, insieme alle altre realtà. Venendo dal mondo del lavoro sociale, la connotazione è a maggior ragione questa qui. La libreria poi secondo noi si presta bene per farlo, perché attraverso il libro possono nascere diversi spunti.

Dalle vostre pagine social traspare una grande sensibilità nei confronti di temi sociali e di attualità, che riguardano in primis il territorio. Qual è il vostro rapporto con Marghera, e perché credete che sia importante esporvi, in quanto spazio culturale, nelle lotte che si intersecano in questo territorio, ad esempio contro il progetto dell’inceneritore di Fusina?

Già prima di aprire abbiamo cercato di attivarci all’interno di una rete di soggetti, di associazioni. Crediamo a Marghera nella responsabilità di dover prendere una posizione rispetto a quello che il territorio ha pagato negli anni rispetto al tema ambientale, e di portare un’idea di apertura, di accoglienza, rispetto al tema dell’intercultura, dell’immigrazione. Marghera ha un tasso di residenti stranieri, o di nuove generazioni molto alta rispetto ad altri contesti. Questa situazione, se non è affrontata in maniera seria, può degenerare in quello che vediamo in altri luoghi. Resiste ancora una comunità e uno spirito di solidarietà molto forte, anche se forse ora un po' frammentato. Essere qui significa quindi per noi dire che questa è la strada giusta.

E il territorio, o meglio, la popolazione, è stata recettiva alla vostra apertura?

Sì, non pensavamo che sarebbe andata subito così bene, e di riuscire a trasmettere la nostra idea. C’è stata una bella accoglienza. La libreria spesso è vista come un luogo che apre a delle emozioni, e questo va benissimo, ma non è solo questo. È passata invece anche l’idea di un luogo che agisce per il territorio e con il territorio. L’idea di cultura astratta (qualcuno ci diceva: “Era ora, la gente deve leggere”) non è l’approccio che noi vogliamo avere. Il libro aiuta se però attraverso di esso si aprono curiosità e voglia di fare. Per noi la cultura non è un modo per elevare, ma dev’essere occasione di confronto, anche con chi non legge.

Vi abbiamo conosciuti grazie alla vostra splendida vetrina a tema Black Lives Matter. Che sguardo proponete nei confronti di questi temi internazionali? Come i libri possono aiutarci a dipanare la matassa di situazioni così complesse e che, talvolta, percepiamo anche come lontane dalla nostra quotidianità?

Penso che sia uno dei rischi contemporanei quello di chiudersi e guardare solo al proprio orticello. La dimensione della comunità locale ha valore se ha uno sguardo che va oltre, anche perché gli stimoli dall’esterno continuano ad arrivare. Noi abbiamo approfittato di una protesta forse più popolare, più alla portata di tutti, ovvero quella del blocco dei giocatori della NBA, per creare la nostra vetrina. E’ stata un’ottima occasione, in quanto ha intercettato anche ragazzi e ragazze che non necessariamente avevano questo sguardo, questa attenzione. Abbiamo appunto dedicato la vetrina a scrittrici e scrittori che hanno portato testimonianze importanti sul tema: guardando a quello che succede lontano da noi, dal mio punto di vista è possibile anche trovare le risposte a quello che succede sotto casa. Pensiamo che alcune cose siano solo peculiarità del posto in cui viviamo, accorgendosi invece che succede anche in altri luoghi, forse si riesce a ridimensionare quello che si prova e il modo di porsi. Ovviamente poi ogni territorio ha una sua storia, ma certo alcuni fenomeni sono trasversali. Creare una vetrina del genere in centro a Marghera, nonostante sia un piccolo quartiere, significa che viene vista da decine di persone ogni giorno. Per chi è d’accordo vederla vuol dire aprire un confronto e riconoscersi in una posizione, per chi invece non ci pensa vuol dire dare uno stimolo, e comunque trovare un punto fermo.

Ci consigliate tre letture?

Il giornale dei lavori, di Paolo Barbaro, edito da Abbott

Questa casa editrice ha recuperato due testi già precedentemente pubblicati, uno originario del periodo della Seconda Guerra Mondiale e uno degli anni ’50. Questo libro racconta, come un diario, l’esperienza di un ingegnere in una comunità montana. Il tema principale è quello dello sviluppo, ma poi c’è una riflessione anche sul cambiamento della valle a causa di tutti i lavori che vengono portati avanti. Questo libro è stato voluto da Calvino in quegli anni, ma secondo noi è estremamente attuale, in quanto pone interrogativi che possono valere anche per la cementificazione, la deforestazione, l’urbanizzazione. Dove ci porterà questo “progresso”?

I dimezzati, edito da CTRL

Si tratta di una raccolta di tredici reportage narrativi, con delle foto provenienti dall’archivio fotografico di un ospedale psichiatrico. Le storie narrate parlano di persone in cui si vede “l’altra metà”, per questo dimezzati. Una famiglia di immigrati senegalesi che ha vissuto al Torcello, a Venezia, e quindi cosa vuol dire vivere in un’isola con poche decine di abitanti. Oppure una donna, che viene a sapere di essere stata abbandonata dalla famiglia e racconta l’esperienza di scoperta, ma anche di rifiuto nei confronti della verità. Sono storie molto particolari, interessanti, che fanno riflettere rispetto al significato dell’essere dimezzati. Vuol dire, alla fine, scoprire quella parte che non si conosce di noi.

Il giusto peso di Kiese Laymon, edito da Blackcoffee,

E’ una casa editrice forse poco conosciuta. Questo libro è un memoir: l’autore racconta la sua storia di afroamericano negli anni ’60 e ’70. Il giusto peso è il peso molteplice che si ritrova a sopportare, quindi il peso di essere discriminato, il peso fisico, il peso delle relazioni famigliari (una madre violenta, che però cerca di aiutarlo, mostrandogli la difficoltà degli afroamericani). Un libro molto bello, nonostante sia diretto, duro, non lascia nulla di non detto.

 
 

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