Chiavi di lettura

"Gleba" dei Tersite Rossi & "Topeka School" di Ben Lerner

29 Giugno 2020

Qualche tempo fa ho guardato una serie tv, intitolata Locke & Key, che ha messo in moto in me una strana tentazione.

La trama gira attorno a tre fratelli che, dopo il macabro assassinio del padre, si trasferiscono nella loro casa ancestrale in Massachussetts. Lì scoprono che la casa ha chiavi magiche che danno loro una vasta gamma di poteri e abilità. Una di queste chiavi è quella della prigione dell’Io e può portare il possessore in un mondo di specchio in cui si può confrontare sé stessi.

«Forte!» mi sono detto guardando Locke & Key «quella chiave mi servirebbe per rinchiudere dentro allo specchio il mio socio. Mi farebbe comodo per imprigionare quel tipo scorbutico, spesso indisponente, con cui sono costretto ad avere un confronto serrato quotidiano».

Il mio socio infatti non perde mai un’occasione per sbattermi in faccia le sue ossessioni, soprattutto quando mi sento inadeguato e questo non aiuta per niente la mia autostima. L’ultima discussione che ho avuto con lui riguarda la mia tentazione di pubblicare un articolo che parla di letteratura, una recensione su un paio di libri appena letti:

Socio: Ma sei pazzo, con che competenze ti metti a scrivere recensioni di libri? Lascia stare che è meglio.

Io: Già, forse è meglio lasciar perdere. Ma non perché me lo hai detto tu. Cerco di chiarire. Il mio non è un atteggiamento di inadeguatezza, anzi, ripensandoci forse lo è. Sono insicuro perché non ho studiato abbastanza i “classici” e quando mi sono avvicinato a quelle opere considerate imprescindibili, che ne so, quando ho iniziato a leggere “Ulisse” di Joyce o “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust ho desistito. Poi, ad essere sinceri, fatico quando la letteratura è rivolta molto allo stile, alla scrittura senza tempo quasi incurante dell’ambiente che la circonda. Soprattutto in questo periodo sono insofferente rispetto ad un certo tipo di libri. Perché sento di avere altre urgenze e quindi divento impaziente. E per leggere quel tipo di testi ci vuole la pazienza che ora non ho.

Socio: Ecco bravo, sii umile e occupati di cose più urgenti per te e per chi ti sta vicino.

Io: Forse hai ragione. La mia urgenza e di conseguenza la mia inquietudine in questo momento, essendo padre, è rivolta soprattutto al mondo che verrà, che è messo a rischio dall’avidità umana che continua a distruggere sia il pianeta sia le menti che lo abitano. Intendiamoci: urgenza non vuol dire fretta. Significa dare priorità, perché il mondo lo sento precipitare, quello sì ad una velocità vertiginosa.

Socio: Allora non perdere tempo in pretenziose attività di recensore e usa il poco tempo libero che ti avanza a leggere e imparare con umiltà e senza ambizione. Non è mai troppo tardi.

Io: D’accordo, è vero, ma da dove iniziare? Sento il bisogno di una forma letteraria vischiosa, che s’appiccica all’inquietudine che sto vivendo. Scrivendo l’ipotetica recensione non volevo dare un pretenzioso giudizio, ma solo comunicare che ci sono libri che mi aiutano a comprendere meglio la natura delle mie inquietudini.

Socio: Boh, pensi davvero che interessi a qualcuno?

Io: A pensarci bene non credo. Certo che riesci sempre ad asfaltare del tutto il mio amor proprio.

Socio: Meglio che ti asfalti io che qualcun altro.

Asfaltare del resto è una parola che ultimamente incontro spesso, intesa nel senso di “prevalere in modo assoluto sull’interlocutore in una discussione, un confronto, un dibattito; sconfiggere nettamente un avversario in una competizione sportiva o ludica; umiliare, annientare, distruggere qualcosa o qualcuno”.

Una delle inquietudini che mi porto dentro in questi ultimi tempi riguarda l’uso di questo termine nel mondo della scuola: il valutificio in cui spesso è stata ridotta, tutti i concorsi, le gare, i premi, i talent … che si tengono negli istituti scolastici ho l’impressione che insegnino soprattutto ad asfaltare l’altro.

Perché dico questo?

Semplice, perché ho imparato direttamente sul campo che, anche in ambito scolastico, si tende a non pensare al bene comune, alla crescita culturale, ma si predilige preparare gli studenti soprattutto alla competizione e ad ottenere quei risultati (voti) utili al mondo che aspetta lì fuori. E spesso si bara per raggiungere questo traguardo. Chi può permetterselo inietta nei figli ore e ore di lezioni private extra scolastiche falsando l’andamento generale e allargando la forbice tra chi può e chi non può.

Ho notato che, purtroppo anche tra i più giovani, è diventato piuttosto comune l’uso figurato del verbo “asfaltare”. Per una strana coincidenza, o più verosimilmente perché ne avevo bisogno, ultimamente ho letto due libri che parlano, in qualche modo, di questo. Raccontano di scuole elitarie che insegnano ad “asfaltare”. Entrambi finiscono col protagonista che capisce che il mestiere più difficile, quello di vivere, s’impara lontanissimo dall’asfaltare.

Per non provocare il mio socio evito la recensione di questi due bellissimi libri, che tra l’altro non sarei stato mai in grado di scrivere, e mi limito a consigliarli a chi, come me, è preoccupato da quella tendenza del linguaggio a diventare sempre più aggressivo e competitivo con l’altro da sé:

Gleba dei Tersite Rossi (Pendragon)

Paolo, ragazzo insicuro e introverso, frequenta una scuola elitaria, dove gli studenti sono spinti a una competizione feroce come quella del mercato del lavoro che li attende. Adriana, impiegata modello in un colosso dell’ e-commerce, la sera torna a casa e studia da brigatista, per vendicarsi dei padroni che le han portato via il marito e la migliore amica. Amina, figlia d’immigrati marocchini, dopo la morte sul lavoro del padre si è smarrita nel tunnel del vuoto esistenziale, da cui prova a uscire abbracciando il jihad. Enrico e Valeria, marito e moglie, conducono una vita precaria come il loro lavoro; lui sublima con la letteratura, la palestra e le avventure extraconiugali, lei con il sogno di un figlio. Proprio quando queste esistenze così distanti, ma tutte asservite, inizieranno a toccarsi e a confidare in una svolta, comincerà il conto alla rovescia di un duplice, pazzesco attentato terroristico, pronto a travolgere tutto e tutti. A sperare di resistere sarà solo chi avrà il coraggio di svolgere il mestiere più difficile: quello di vivere.

Topeka School di Ben Lerner (Sellerio)

Adam Gordon è uno studente dell’ultimo anno di liceo alla Topeka High School. Topeka School è una storia di famiglia ambientata negli anni Novanta nel Midwest americano, un racconto di adolescenza e trasgressione, una diagnosi delle condizioni economiche, sociali, individuali che hanno sospinto l’ascesa di un linguaggio sprezzante e conflittuale che è diventato la nuova norma nella vita di tutti i giorni. E il romanzo è anche una sorta di preistoria del nostro presente, del collasso del discorso pubblico sepolto dal diluvio delle parole dei social, e intuisce l’emergere di un nuovo pensiero che dalla crisi di identità dei maschi bianchi fa scaturire un desiderio di rivalsa e di potere.

ero in imbarazzo, lo ero sempre stato, ma mi obbligai a partecipare, a essere parte di un discorso pubblico, di un pubblico che lentamente reimparava a parlare, mentre cercavano di asfaltarlo” da Topeka School di Ben Lerner

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Se siete arrivati fino a qui i l’avrete capito: per evitare la recensione, vi ho rifilato un pippone, una mia parziale “chiave di lettura”. Ma di questo non date la colpa a me, prendetevela con quel tipo scorbutico, spesso indisponente, con cui sono costretto ad avere un confronto serrato quotidiano, ovvero mio socio.

 
 

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