Close up - Inquadrature di cinema e dintorni

Take Three - Cinema e Indipendenza

20 Giugno 2020

In questo take voglio consigliare tre titoli di film che in qualche modo siano riconducibili al cinema indipendente. Partiamo dal presupposto che fornire una definizione di indipendente è assai complicato. Ora più che mai.

Basti pensare alla confusione che c'è, oggi, nel fare cinema. La vecchia industria cinematografica si trova a dover rincorrere l'offerta di film (e serie tv che sembrano film) a basso prezzo generati e imposti dal nuovo sistema on demand che abbatte i tempi di uscita e che sta chiaramente uccidendo le sale cinematografiche. Un sistema dove produzione e distribuzione sono correlate e viaggiano di paro passo perché controllate da un vertice in comune.

Per questa settimana la mia scelta ricade su tre registi, che, seppur in diversa misura, sono distanti dalla scena mainstream e dal grande pubblico. Gli stessi hanno, a mio avviso, dimostrato coerenza nel loro percorso artistico con l'obiettivo di generare un proprio universo narrativo, senza compromessi né limitazioni. Sono registi che rivendicano il bisogno (a volte personale) di trattare temi scomodi e complessi con un approccio più autoriale e sperimentale, manifesto di un nuovo modo di intendere il mondo dell’arte, al di là del puro consumismo.

Utilizzano una forma di narrazione decisamente atipica e anticonvenzionale e prediligono un cinema che offre uno sguardo più intimo e profondo privo di sfacciate artificiosità, slegato dalle grosse case di produzione (essi stessi sono produttori del film) e distribuzione per non sottostare ad alcuna forma di subordinazione.

Con il rischio, però, di cadere, in alcune occasioni, in eccesso di zelo e autoreferenzialità.

Ma procediamo con ordine.

Clerks

CLERKS
di Kevin Smith
Usa 1994

Ho una passione per questo piccolo cult degli anni 90. La prima volta che lo vidi non conoscevo la sua genesi. Ricordo che ero piccola, mia sorella e le sue amiche mi avevano invitato a vederlo in VHS - noleggiato - nella tv di casa. Con emozione e orgoglio, stavo per vedere un film con i grandi e da grandi.

E i grandi sono anche i protagonisti: giovani nerd americani, diretti da un emergente e scapestrato Kevin Smith (In cerca di Amy, Dogma) puntuale nel cogliere la loro più banale quotidianità.

Una quotidianità avvolta dalla precarietà e dall'incertezza esistenziale, specchio di una realtà che Smith decide di raccontare anche nei lavori successivi.

Dialoghi serrati e gag grottesche sono gli elementi che accompagnano la scena ambientata in massimo tre location: la vidioteca di Randall, il minimarket  di Dante e la strada, ovvero il mondo esterno, adiacente ai due negozi, attraversata da improbabili individui e sorvegliata da due simpatici spacciatori (con cameo del regista).

Tutto il film è sorretto da uno stile registico artigianale ed essenziale in perfetta sintonia con il messaggio implicito. E l'essenzialità è protagonista anche nei mezzi a disposizione: Clerks, infatti, è girato di notte con un budget sotto ai 30000 dollari, metà dei quali spesi per la licenza sulla musica utilizzata e mai utilizzati per la post produzione della color (il film è, per questo, in bianco e nero).

Distribuito in meno di dieci sale cinematografiche, il film circolò tantissimo nelle vidioteche americane e diventò riferimento di una generazione cresciuta tra cultura analogica degli anni 90, vhs e pellicola sgranata, disincanto e un pò mal di vivere. E vederlo oggi non ha lo stesso effetto: rimane legato, inevitabilmente, a chi l'adolescenza l'ha vissuta in quel decennio. Con la chiosa finale di un pessimo lavoro di conversione in digitale che ne ha assai compromesso la qualità. Ma rimane una chicca da vedere.

Elephant

ELEPHANT
di Gus Van Sant
2003 USA
Palma d'oro per miglior film e regia Festival di Cannes 2003

Non amo particolarmente i film di Gus Van Sant ma apprezzo il suo approccio al medium cinema, che lui esplica con forme narrative lontane dall’omologazione e dalle norme stabilite da Hollywood. Inoltre, è un regista che, per ottenere un maggior controllo sulla produzione dei film, ha spesso rinunciato a grandi budget e a grandi distribuzioni.

«Van Sant si conferma il figlio più degno della controcultura americana, capace di rinunciare a Hollywood per fare esattamente il cinema che vuole». (Roberto Nepoti, "La Repubblica", 19 maggio 2003)

Elephant racconta la strage, per mano di due ragazzi, in una scuola americana. La storia è liberamente ispirata ai fatti della Columbine High School del 1999. Mentre il titolo del film è una citazione dell'omonimo film del 1989 (Elephant di Alan Clarke) e vuole alludere al così detto elefante nella stanza, metafora di un problema che tutti vedono ma di cui nessuno vuole parlare. Nel film, la questione è facilmente associabile all'uso e abuso delle armi negli Stati Uniti.

Ma Van Sant pretende di andare oltre a questa ovvietà demistificando la violenza stessa, non giudicando, non creando pregiudizi ma anzi, calando lo spettatore nel dramma inscenato con esasperato realismo che rende tutto vicino alla normalità e quindi, alla quotidianità. Noi non partecipiamo al massacro, a Van Sant non interessa quello. Interessa che il pugno sullo stomaco arrivi ugualmente. Senza troppa suspance.

Ma per essere acritici serve uno stile sobrio quasi asettico intriso di una certa libertà di improvvisazione che il regista concesse ai suoi protagonisti (attori non preofessionisti). La macchina da presa segue gli allievi, di schiena, con lunghe inquadrature (piani sequenza), in lunghi corridoi, o ci fa vedere lo stesso avvenimento da soggettive diverse. Ascoltiamo i loro scarni dialoghi per immergerci nel vuoto esistenziale di questi ragazzi. Un vuoto generato dal sistema che noi stessi abbiamo creato. I giudicati non sono i giovani del film ma noi spettatori, colpevoli di non fare nulla.

In un mondo ormai sempre più incline al virtuale, Van Sant sembra quasi ricreare l'atmosfera di un videogioco, dove realtà e finzione si confondono.
Gioca sottilmente con queste due dimensioni di continuo creando un cortocircuito nello spettatore.

Mommy

MOMMY
di Xavier Dolan
Canada, Francia 2014
premio giuria festival cannes 2014


Da dove inizio? Da Dolan. Necessariamente. Un regista che nel 2014 a soli 26 anni era già arrivato al suo quinto lungometraggio. Dotato di un talento incredibile e sfrontato, Dolan scrive dirige e monta Mommy, una rappresentazione nuda e cruda dell'affetto, un legame che sa essere al tempo stesso violento, profondo, incontrollato e morboso. Un tema che ricorre nella filmografia del giovane regista.

Tutto viene raccontato con estrema semplicità senza troppi fronzoli. Tutto è decisamente essenziale: tre protagonisti (madre, figlio e vicina di casa) nessuna allusione al loro passato, nessun protagonismo del contesto sociale che rimane in secondo piano. Dolan sceglie il formato 1:1, non c'è spazio per tutti: lo schermo è quadrato, non ci sono campi lunghi ma solo i corpi dei nostri protagonisti, imprigionati in quella gabbia di schermo dove non c'è posto per un soggetto altro.

E quindi li vediamo schiacciati a volte dalle inquadrature stesse perché impossibilitati di trovare uno spazio comune o di integrarsi in un gruppo che non sia il loro.

«Volevo che lo spettatore guardasse direttamente negli occhi dei miei personaggi, che non fosse distratto da nient’altro». (Xavier Dolan)

Dolan utilizza il cinema come linguaggio estetico. E gioca con le variazioni stilistiche. Tutto ha un significato: il formato si apre (in un 16:9 di maggior respiro) solo quando la prospettiva cambia e i nostri protagonisti intravedono un futuro stabile e contornato di persone altre. Ma l'instabilità emotiva e l'incertezza fa ritornare tutto all'origine soffocante e fastidiosa della dimensione reale.

Un aiuto importante sicuramente viene dall'ottima fotografia di André Turpin il quale alterna con maestria interni cupi e stretti ad esterne luminose e larghe.

E ancora, i movimenti di macchina incollati ai corpi e o lo smisurato utilizzo del rallenty quasi a significare che non pssiamo perderci un istante, un frammmento.

Dolan è tutto ciò. Incontenibile, esagerato, invadente, totalmente libero e indipendente.

 
 
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