L’inquietudine di un poeta trasformata in musica. L’album d’esordio della band indie-rock Warmhouse

Recensione dell’album "1984"

22 Maggio 2020

Sei parte dei temerari illegali che ascoltano musica sbiciclettando? Ti piace avere il sottofondo musicale come nei film? Allora la giungla di suoni che è uscita oggi fa al caso tuo: 1984, album d’esordio dei Warmhouse, band indie-rock pugliese, per l’etichetta Spazio Dischi, contenente 4 brani, poesie come testi, raccoglie la tua immaginazione da dove la quarantena l’ha lasciata e la eleva; basta sentire i primi battiti di 1984 (brano) o Molko Monday per catapultarsi nel proprio universo mentale.

Drum machines, chitarre limpide e un certo che di elettronico sostengono un ritmo variabile che scandisce in modo molto chiaro l’indole rock del gruppo..

Ma da dove viene l’album? Un annuncio in bacheca. Una vecchia Casio-Tone anni ’80 a un prezzo stracciato, buone condizioni. Nient’altro. Se non fosse che quella Casio-Tone nasconde le poesie di un ignoto ai più Patrick R., poeta d’oltremanica, che ha involontariamente (?) lasciato un testamento datato 1984.

Da qui i testi, rigorosamente in inglese, rimaneggiati da Francesco Elios Coviello e accompagnato nella musica da Agostino Nestola, Davide Cimmarusti e Pasquale Monti.

L’album 1984 è il ritratto delle prime mosse in termini compostivi della band, un breve manifesto stilistico nel quale non manca però un’introspezione nel cuore di un giovane adulto che ritrova i cocci di una giovinezza passata, e quindi le illusioni e gli amori e la sofferenza e la malinconia.

(Molko Monday)

«Oh come on, your word is a hole

You don't know what you say today, what you'll say tomorrow

Your eyes speak more than a word

Secret stones we don't understand and you don't stand»

Con Molko Monday sin dal primo ascolto sono stato travolto da un’intensità sempre crescente della batteria, della chitarra, dei synth e della voce con un apice in un ritornello molto rock che lascia sospesi ad aspettare che l’infatuazione si sbrogli.

Un altro super pezzo è quello che dà il nome all’album, 1984. Qui il ritmo è ben proposto dalla batteria, accompagnata a braccetto da synth molto più che solo orecchiabili. La prima strofa è molto indicativa del contenuto dell’album: una malinconia che appartiene certamente a chi rimpiange altri tempi

«I’m gettin’ old again

Oh, I don’t talk enough

But your snow white hills

And this path goes down from here

And this flavour of burnt fears

Make me feel in a storm

Calling out to me

Blowing out my name»

Quello dei Warmhouse è un album molto più che d’esordio. È un lavoro che mette insieme poesia e musica come non molti altri fanno. Come non apprezzarlo? Come non apprezzare poesie di vita? Come non apprezzare musica di vita? In tempi difficili serve guardarsi dentro senza offuscarsi. Per questo anche le lyrics, testimonianza di sofferenza, di illusioni tramontate, di amore, prigionia, rimorso, violenza, inquietudine sono da apprezzare per la sincerità con cui Patrick R. prima e i Warmhouse poi si sono presentati. 1984 è un biglietto da visita, marchio di una ricerca in atto, capace di rendere le pedalate più leggere e i pensieri più sottili.

 
 
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