"La Ferrovia Sotterranea" o della storia da non smettere mai di narrare

Recensione del libro di Colson Whitehead

4 Maggio 2020

Un nome di persona e uno di uno stato americano: così si alternano i dodici capitoli de La Ferrovia Sotterranea, opera grandiosa di Colson Whitehead, edita in Italia da Sur. Attraverso quasi quattrocento pagine, seguirete l’impresa della giovanissima schiava Cora nel tentativo di ottenere uno scampolo di libertà in quelli che furono gli Stati Uniti del sud nella prima metà dell’Ottocento. 

Campi di cotone, caporali, cacciatori di taglie, violenze di ogni ordine e grado, compravendite e quotazioni borsistiche, navi cariche di uomini e donne predati dall’Africa, razzismo e insperati afflati di umanità segnano tutta la narrazione. A dare il titolo dell’opera, a tracciare de facto gli spostamenti dei personaggi e ad intrecciare con un’invenzione di fantasia la Storia vera vi è appunto questa ferrovia, un fantomatico e malfermo percorso serpeggiante tra gli stati e unica ancora di salvezza da tentare. 

Un mezzo inventato, seppure in modo credibile, per rendere agevole la comprensione di tutta quella complessa rete clandestina fatta di strade e percorsi sicuri, rifugi e sostegno abolizionista serpeggiante fino al Canada e volta a dare l’unica opportunità di fuga agli schiavi. 

Dalla Georgia alla Carolina del Sud, dal Tennessee all’Indiana il viaggio di Cora sembra via via aumentare le gradazioni di libertà a cui si poteva aspirare. 

Ma niente risulterà mai privo di pericoli e l’unica sicurezza per la protagonista, e come lei per tutti gli schiavi, sembra alla fine dei conti essere sola la fuga, il moto perpetuo. 

Se ti fermi, sei perduto. Se ti senti sicuro, sei spacciato. 

Una spietata, quanto reale, narrazione che non lascia spazio, aggiungerei giustamente, ad adattamenti tanto sentimentali quanto privi di veridicità. Se si devono narrare episodi, eventi, epoche non si può pensare di cedere all’edulcorazione dei fatti solo perché guardarsi indietro risulta troppo difficile da gestire. Soprattutto se serve una presa di coscienza maggiore e trasversale per far fronte a riemergenti, tanto quanto mai sopiti, pensieri razzisti e segregazionisti. 

Whitehead, che con questo testo ha vinto sia il prestigioso Premio Pulitzer sia il National Book Award, ha deciso di usare un taglio preciso, disarmante e vivido per narrare, elaborando de facto un’opera unica. 

È riuscito a plasmare la storia di Cora come un riassunto chirurgico capace di aggregare ai soprusi e alle violenze, vissute o viste, i sogni e le speranze di tutta una realtà. 

Un’epopea del singolo che diventa squarcio trasversale su un intero mondo.

Ed è così che come una locomotiva lanciata a tutta velocità, inseguirete i binari fatti di parole «senza riuscire a posare il libro nemmeno per una breve pausa». 

«Dalla notte in cui era stata rapita, era stata oggetto di continue valutazioni e perizie, svegliandosi ogni giorno sul piatto di una nuova bilancia. Se sai qual è il tuo valore, sai qual è il tuo posto nel sistema» pensa Ajarry, nonna di Cora nelle prima pagine. Ma se per lei sfuggire dalla piantagione era impossibile, per Cora questo si può ribaltare, perché diverso è il posto nel sistema a cui ambire, differente è la capacità di rivendicazione e soprattutto abissale, in due generazioni, la presa di coscienza del proprio essere. Ecco allora che Cora potrà dire «Ero in Georgia. Sono scappata» e tutto quello che scorre in mezzo a queste due affermazioni agli antipodi è memoria da raccontare e perpetuare oggi come domani senza tentare manovre di rimozione o addolcimento. 


Autore: Colson Whitehead, newyorkese poco più che quarantenne, autore tra l’altro di Sag Harbor, L’intuizionista, I ragazzi della Nickel

Traduttrice: Martina Test

Casa editrice: Sur, fondata nel 2011 e volta a pubblicare scrittori e scrittrici contemporanei. Con la collana Big Sur ha attivato un focus sulla narrativa e la saggistica in lingua inglese.

 
 
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