Don't panic, stay Sherwood - Rock da quarantena

Il terzo appuntamento della rubrica dedicato ai consigli musicali

12 Aprile 2020








Coney Island baby, Lou Reed, 1976

Nella noia dei pensieri, nell'affannosa ricerca di se stessi in questi giorni senza senso, la musica diventa un luogo, una place, una yarda, una taverna.
Il musicista allora si trasforma in oste, servendoti da bere e da mangiare a seconda dei tuoi infiniti gusti.
Ma se non sei troppo vizioso e non hai grosse pretese, in taverna, capita che parli con l'oste e gli dici la classica frase «fai tu!», che in veneto molto poeticamente diventa «fa ti, fa ben».
Allora Lou Reed è il tipo cinico e saggio, con la giusta dose di ego attorno a se, che conosce i tuoi gusti, e ti inizia ad ingozzare di emozioni contrastanti con garbo e gentilezza.
Nella sua voce e nei suoi arrangiamenti puoi decidere tu se vederci il passato o il futuro, mentre lui accompagna il tuo presente.

Lontano dai grandi classici della fine degli anni sessanta, quelli con i Velvet Underground, e dall'album forse più conosciuto della sua carriera da solista, Transformer, che sicuramente molti di voi avranno già abbondantemente ciucciato, propongo un album, Coney Island Baby, della metà degli anni settanta, del 1976 per esattezza. Qui il sound di Lou Reed è inconfondibile ma la portata non necessita di virtuosismi particolari e sicuramente non ci sarà un coinquilino tuttologo che ti dirà "ma sì, questa è famosissima, come fai a non conoscerla!", lasciandovi stravaccare sul divano in santa pace.







Naturally, J.J. Cale, 1971

I nomi dei generi musicali mi hanno sempre incuriosito senza per questo affascinarmi mai più di tanto. Forse perché tutto ciò che mi piace, a parte il jazz, lo considero rock, o forse perché dagli anni sessanta in poi il mix è talmente complesso che catalogare un artista mi è sempre suonato come una cazzata.

Molti definiscono l'americano J.J. Cale come capofila del genere Tusla, un miscuglio di blues, country-rock e primordiale rockabilly. Io credo che il suo sound sia inimitabile, non tanto per le sonorità della seconda città più grande dell' Oklahoma, quanto per la profonda intimità che crea attorno a se, come un aura visibile solo ad occhi chiusi.

«Lui è quello che ha scritto Cocaine a Eric Clapton», mi disse papà un giorno, mentre faceva scorrere leggera la puntina sulla prima traccia del lato A di Naturally, primo disco solista di Cale.
Ma, al di là delle chicche del buon Sandro, e dei rapporti stretti tra Clapton e Cale, il disco è un inno alla profondità, una grossa luce dentro la caverna dell'anima di chi lo ascolta.
Ti culla con le chitarre di Call the Doctor, supera la malinconia e fa l'occhiolino ai ricordi in Magnolia e ti catapulta nell' America che non conosci con il Blues di Crazy Mama.
Il resto è tutto da ascoltare, a qualsiasi ora, preferibilmente After Midnight.







Dixie Chicken, Little Feat, 1973

... In uno dei viaggi mentali che mi son fatto ascoltando On your way down ci sono io che incontro Robert Rodriguez, mentre a fianco a noi ascolta e sogghigna Tarantino, e gli chiedo perché non avesse preferito questa canzone ad After Dark dei Tito and Tarantula, in quella bellissima scena in cui Salma Hayek compare con un pitone giallo sulle spalle e poco dopo fa scorrere su tutta la gamba della tequila in bocca al regista Pulp. Mentre lui prova, imbarazzato, a rispondermi, Quentin lo interrompe, mi guarda dritto negli occhi, e mi dice «cazzo, hai ragione, è fottutamente sexy! Come ho fatto a dimenticarmi di questo pezzo! La userò io nel mio prossimo film»...

I little feat sono una tra le band dimenticate dai giovani del ventunesimo secolo, o almeno dalle loro playlist su spotify.
Ma i sopravvissuti al secondo novecento non hanno mai dovuto convivere con una quarantena forzata, e forse siamo ancora in tempo per ripescare dal cilindro questa band capace di creare armonia in ogni tavola battuta dai loro stivali squisitamente rock.

Lowell George, cantante,chitarrista e leader della band, è uno di quei compositori di talento che sembrano avere talmente tante idee in testa da diventare troppe. Persino per Frank Zappa, che nel '69 gli disse «George, sei troppo bravo, fatti 'na band tua».

Live spaccano, come spaccano i primi 4 dischi(su tutti Sailin' Shoes) comprese le copertine. Ma visto che live quest'anno non li potremmo vedere nemmeno con un biglietto andata e ritorno per gli States, l'ascolto di Dixie Chicken, terzo album della band, diventa quasi necessario.

E' il disco per ogni tipo di serata in quarantena: per chi se la fa da solo, per chi con il proprio compagno o compagna abbia voglia di un po' di sensualità pre- sesso, per chi si deve chiudere in camera con le cuffie ed il pc acceso, per chi legge tutto il giorno, per chi ha trovato nei fornelli la propria vocazione, per chi una casa non ce l'ha ma forse un telefono si, per chi vede il mondo da dietro una sbarra o per chi ha passato una giornata intera ad aiutare la propria comunità e ha solo voglia di addormentarsi con un sottofondo morbido come il cuscino su cui ha appena appoggiato la testa.







Let it Bleed, Rolling Stones, 1969

Mentre i Beatles componevano let it be (lascia che sia), gli stones stavano lavorando su Let it Bleed (lascia che sanguini), e mentre lo facevano, nella metà esatta di quel maledetto anno, moriva affogato nella propria piscina Brian Jones. Un J27. Fondatore della band. Polistrumentista eccentrico. Pieno zeppo di vizi e di ego. Fu tra i primi, insieme a George Harrison, ad introdurre il Sitar in una composizione rock inglese, la celebre Paint it, black. Ma fu anche tra i primi artisti di quella scena a darci dentro con le metanfetamine. Talmente tanto da non riuscire neppure a fare le prove per incidere il disco (figurerà alle percussioni in Midnight Rambler e all'auto-arpa in You got the Silver). Da farsi dire da Jagger, non proprio uno stinco di santo, «che strumento riesci a suonare Brian?!», e farsi cacciare dal gruppo qualche settimana più tardi.
E nonostante tutto ciò Brian fu la prima candelina, chitarra in mano, primo piano accanto a Jagger, della torta in copertina, a riprova della pazzia che aleggia costantemente nel mondo degli stones.
(Suggerisco di leggere "Life", autobiografia di Keith Richard, per approfondire più da vicino l'eclettica vita della band)

Rifletto. Penso a quanto possa esser stato assurdo incidere un disco praticamente Blues in mezzo a tutto quel caos, quel trambusto. A quanto, Keith e Mick soprattutto, stessero cercando le radici del loro sound nel profondo sud degli Stati Uniti, nella musica del Delta del Missisipi, nella musica degli Afro-americani e della loro emancipazione, sapendo di essere dei fottuti bianchi a Londra.

Non capisco ancora adesso come la passione che pulsa dalle interiora di Love in Vain (vecchio Delta-Blues di Robert Johnson) possa catapultare la mente ubriaca su un treno merci, in una notte buia, in una piccola stazione della Louisiana, dando la netta sensazione di essere laggiù, tra odori acidi e lacrime di ferro e ruggine (La presenza di Ry Cooder al mandolino è un piccolo tocco di classe).
Non capisco perché quando si ascolta let it bleed poi venga spontaneo cercare senza successo la goccia di sangue che gocciola dal naso.
Non so come un barbone Italo-Americano abbia potuto ispirare quello strano e coinvolgente riff in Midnight rambler .
Come gli sia venuto in mente di mettere un coro Gospel in una canzone che descrive un uomo che non può avere sempre ciò che vuole, nemmeno con la fama, nemmeno per i propri vizi;
come possa essere, a distanza di 50 anni, cosi attuale gimme shelter, con il suo «it's just a shot away», e non so come faccia Mick ad essere cosi sensuale e libero nel parlare di un bordello, a quei tempi, in Country Honk .

Questo è un disco che scorre come il tempo: veloce se te lo divori e lento se ti fai trascinare.

Questo è un disco, come scritto sul retro della copertina, che si dovrebbe ascoltare a volume alto.







Black Market, Weather Report, 1976

E' il sesto album in studio della band, il primo con al basso il virtuoso Jaco Pastorius.
Gente brava a suonare. Gente che gravitava attorno alle improvvisazioni di Miles Davis prima di avvicinarsi ad un sound più alla portata di tutti. Gente capace di fondere le note jazz alle melodie rock con gusto e tecnica sublimi.
Joe Zawinol alle tastiere e Wayne Shorter al sax erano la mente e l'anima di un corpo che prendeva forme diverse a seconda di chi capitava sotto le loro dita.

Nel disco si trovano respiri melodici di ottone e ritmi sincopati, disegni di linee di basso eccentriche e schizofrenici sfoghi di tastiera.
Ci sono i sintetizzatori e gli effetti gravitano a due metri da terra senza mai toccare il cielo.
La musica è vicina, si batte nell'aria. Persino il divano fluttua.
E' un disco che si può rollare e fumare. È una canna da 36 minuti e 46 secondi.

In Elegant People, rigorosamente senza testo,come tutto l'album, il Sax spruzza saliva in faccia a chiunque gli si pari davanti, ed il materasso è languido e delicato come una camicia bianca di seta appena stirata.

Paolo Conte, in una sua famosissima Hit, dice: « ...le donne odiavano il jazz, e non si capisce il motivo. »...
... Forse perché non avevano ancora ascoltato i Weather Report .

 
 
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