La musica ai tempi del Covid-19

di Maria Cristina Galasso, docente di Esercitazioni Corali al Conservatorio Cimarosa si Avellino

28 Marzo 2020

Quello che stiamo vivendo è un tempo di sospensione in cui tutto ciò che scandiva le nostre giornate è fermo e con esso sembra essersi fermata anche la vita, che però, al di là dei vetri delle finestre della casa in cui siamo relegati continua a scorrere indifferente, anzi si direbbe risanata nella natura, con le giornate di sole, gli uccelli che cantano, i prati che si coprono di margherite. Mi viene alla mente l’immagine che di essa dà Leopardi, di un’entità indifferente alle vicende umane, da cui anzi riceve danno, aggiungo.

Gli appelli a stare a casa si arricchiscono col consiglio di riempire il tempo con la lettura e l’ascolto di buona musica.
I libri, gli spartiti, l’ascolto musicale da sempre hanno fatto parte della mia vita e ne sono stati spesso sostegno e salvezza nei momenti difficili. Lo sono ancor più adesso, insieme alla presenza dei quattro, di numero, gatti che dividono con me l’esistenza.

La musica però ha una sua specificità e ancor più della parola scritta, proprio grazie alla sua immaterialità e inafferrabilità, in quanto è un qualcosa che esiste solo nel momento in cui la si fa e che smette di esistere subito dopo, a differenza di un quadro o di un libro che hanno una loro oggettività permanente, è capace di dar voce ai nostri pensieri e alle nostre emozioni. Diceva Victor Hugo che ciò che non si può dire e non si può tacere, la musica lo può esprimere. Portava inoltre ad esempio della superiorità della musica rispetto alla parola, scritta o parlata, il famoso quartetto dal terzo atto del Rigoletto (Bella figlia dell’amore). In questo momento dell’opera infatti vi sono quattro personaggi che esprimono contemporaneamente ognuno un sentimento diverso e contrastante, senza che questo crei confusione, ma anzi, dandone l’esatta consapevolezza all’ascoltatore, cosa, che ovviamente in un teatro di prosa o in una narrazione scritta avrebbe potuto avvenire solo in successione. Ascoltate il quartetto, se non lo conoscete, per rendervene conto, magari avvalendovi della lettura del libretto o di una guida all’ascolto. (Potete ascoltarlo a questo link)

La musica quindi è sì uno specchio della vita che ci scorre attorno, ma è essa stessa esperienza di vita, nella sua essenza indicibile, nella individualità di ognuno di noi. Quando ascoltiamo musica diventiamo partecipi del vissuto materiale ed immateriale del compositore e allo stesso tempo vi troviamo ciò di cui abbiamo bisogno. Vi sarà capitato ascoltando un determinato passaggio di una sinfonia, di una sonata, di un quartetto di percepirlo come se fosse stato modellato esattamente sul vostro sentire? A me, è successo molto spesso, anzi in alcuni momenti della mia vita, particolarmente difficili e sofferti, mi riusciva impossibile sostenere alcuni ascolti musicali che amplificavano, esacerbandoli, alcuni stati d’animo.

Sappiamo bene come Platone affidasse alla musica non una funzione ludica o gratificante, ma etica, educativa e quindi, in molti casi e soprattutto in alcune espressioni, sosteneva andasse bandita, in quanto corruttrice dei costumi dei giovani.

Sicuramente sono concetti superati, l’arte in quanto tale deve essere libera, anche se, in alcune manifestazioni può svolgere benissimo una funzione etica. È indubbio però, per quel che mi riguarda, che l’ascolto musicale produca effetti diversi in chi ascolta. Tornando al discorso che accennavo sopra, cioè dell’impossibilità dell’ascolto di determinati autori, che pure prediligo, in alcuni momenti della mia vita, mi riferivo all’epoca tardoromantica, a Wagner e ai suoi epigoni, Mahler in particolare. 

Wagner, è autore complesso, in genere idolatrato o detestato, da cui però tutto ciò che è venuto dopo non ha potuto prescindere. Autodidatta, drammaturgo autore dei suoi libretti, studioso di filosofia, uomo controverso. Sulle barricate con Bakunin durante i moti di Dresda del 1848, seduttore della moglie del commerciante svizzero che lo ospitava durante il suo esilio e capace di sfruttare le nevrosi di Ludwig II di Baviera per il proprio interesse personale. La sua musica resta però una vetta assoluta nel teatro musicale e non sempre mi è stato possibile ascoltarla.

Ora che sono matura e ho composto dentro me tanti conflitti, mi è più facile abbandonarmi, senza risentirne, al pessimismo cosmico della Tetralogia dell’Anello dei Nibelunghi, saga nordica in cui ai temi dalla dannazione e redenzione, ricorrenti costantemente nelle sue opere, vi è sottotraccia anche la tematica sociale e politica espressa nel suo piccolo saggio Arte e Rivoluzione, con la condanna del capitalismo nascente, in cui la brama del possesso dell’oro porta alla distruzione dell’umanità (cos’è l’incendio del Walhalla se non quello a cui l’umanità assiste da quando la brama di profitto violenta e distrugge la natura?).
Il finale del Crepuscolo degli Dei è di una tragicità assoluta, apparentemente senza rimedio, che rimanda al finale della Coscienza di Zeno in cui Svevo immagina l’Apocalisse, quasi prefigurando l’avvento della bomba atomica, con una grande esplosione che ridurrà la Terra ad una nebulosa che vagherà nel cosmo. «Forse attraverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni torneremo alla salute».
Allo stesso modo la famosa melodia infinita che si avvolge continuamente su sé stessa descrivendo le fiamme che distruggono la dimora degli Dei e con essa l’umanità, dà l’esatta dimensione della catastrofe, della dissoluzione, anche se l’accordo finale in tonalità maggiore apre alla possibilità, così come in Svevo, di una rinascita. La risposta, però, ahimè, non ci viene fornita.

La musica contiene in sé la vita con le sue emozioni forti, ma anche con le sue astrazioni, le sue sublimazioni e forse, Beethoven, tutt’altra figura umana e d’artista è quello che più ha da dirci in questi tempi, col suo senso invincibile della vita, l’accettazione e sublimazione del dolore, la consapevolezza dell’Eterno, cose di cui abbiamo tutti bisogno.

Beethoven, spirito fiero e orgoglioso, figlio dell’Illuminismo e di Kant, ha per primo interamente rivendicato la libertà dell’artista in un’epoca in cui i musicisti erano considerati poco più che servitori dai potenti e obbligati, se al loro servizio, ad indossare la livrea, come fece lo stesso Haydn. Genio solitario, apparentemente misantropo, in realtà forte di un sentimento di fratellanza universale, come testimonia il suo Testamento di Heiligenstadt e la carica ideale delle ultime sue composizioni, compreso il tanto abusato (e mal compreso) Inno alla gioia della Nona Sinfonia. Coerente però con i propri ideali, tanto da morire in solitudine e povertà minato dalla cirrosi epatica in un letto infestato di cimici in una povera casa in affitto.
Mi ha sempre commosso leggere le cronache della sua biografia e in particolare la sua sofferenza per la sordità totale in cui fu relegato per buona parte della sua vita, che poi corrisponde agli anni delle sue creazioni più alte.
Quella stessa sordità che gli impedì di sentire gli applausi entusiasti del pubblico alla prima della Nona sinfonia al Teatro di Porta Carinzia a Vienna, vestito della sua vecchia giacca di velluto verde che non aveva potuto cambiare con una nuova perché, malgrado il trionfo, la vendita dei biglietti era riuscita appena a coprire le spese.

«Raccomandate ai vostri figli la virtù, essa sola può rendere felici, non il denaro, parlo per esperienza. Fu essa che mi ha sollevato dalla miseria, devo ad essa e alla mia arte se non ho finito i miei giorni col suicidio. Addio, ed amatevi!»
Heiligenstadt, 6 ottobre 1802

La musica è vita quindi, sia essa nella disperata dissoluzione del crepuscolo wagneriano, come nella redenzione/sublimazione del Parsifal dello stesso autore. Nella apollinea serenità degli adagi mozartiani come nella tragicità del suo Requiem o della sua Musica funebre Massonica. Nella sublime malinconia della musica da camera di Schubert, morto a soli 31 anni e nella eroicità della Marcia funebre della terza sinfonia di Beethoven. Nella sacralità della polifonia vocale, da Palestrina fino ai contemporanei Arvo Part e Ola Gjeilo.

La musica non ci risolve i problemi della vita, ma ci indica una strada, quella della bellezza e dell’Infinito, senza i quali essa diventerebbe molto più dura e, forse, priva di senso.

 
 
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