Diario di una quarantena - III settimana

La vita in zona rossa, raccontata da Sherwood

28 Marzo 2020

Un’ennesima settimana in quarantena è quasi terminata.
Sembra ieri che scrivevo la prima puntata di questo strambo format, eppure - non me ne sono neanche accorta - sono trascorsi altri interminabili sette giorni.

Per fortuna non mi sono ancora ridotta a segnare sulla parete della cucina i giorni che passano e a chiudere, di volta in volta, con una linea orizzontale, le sette bacchette trascritte in matita.
Tuttavia, associare una reclusione del mio tipo con quella di un vero e proprio carcerato, è notevolmente insensibile. Ho calore, cibo, un bagno personale, un computer e una connessione, qualcuno da abbracciare di notte. Non esattamente come una persona che vive dietro delle sbarre di ferro in cunicoli sovraffollati e umidi.

Mentre scrivo, una domanda fa capolino nella mia mente. «Ma che cosa ho fatto questa settimana?».
Sbraccio nella nebbia fitta, raggomitolo i ricordi: sicuramente come un altro mezzo milione di italiani ho dato sfoggio di dubbie qualità culinarie. I tutorial invadono la mia home, conosco il procedimento per ottenere la lievitazione perfetta. Peccato che il supermarket più vicino casa in cui mi reco, è sempre – dico sempre – sprovvisto del lievito di birra.

Questa settimana, rispetto alla precedente, è stata caratterizzata da un cielo plumbeo, pioggia fitta e vento tagliente. Ho coperto il viso con una sciarpa di lana per andar a ritirare i giornali settimanali: internazionale, l’espresso, qualche quotidiano nazionale. Ormai è l’unico acquisto di lusso che mi concedo, dopo aver grandemente limitato l’acquisto del tabacco.
Sto conservando gelosamente i giornali, ormai quasi invadono casa.
Penso che li terrò come ricordo simbolico: quando lì vedrò tutti lì, spiegazzati e sgualciti nel portariviste, ricorderò il sacrificio della libertà, e che la mia unica evasione dalle mura casalinga, per un intero mese, è stato l’acquisto del giornale al chiosco più vicino.

Fortunatamente, nel paese di poeti, naviganti e – ovviamente – cuochi, sono riuscita a manifestare la mia creatività latente. Ho effettuato esercizi mirabolanti di fitness con sottofondo otto e mezzo di Lili Gruber. Ho macinato in poco tempo un libro, che tuttavia ho trovato scialbo e mal scritto, e ne ho iniziato un altro, molto meglio. Ho ascoltato una sinfonia di Mahler, un disco metal e, per non farmi mancare proprio nulla, un artista Trap italiano, domandandomi per 2 minuti su 3.40, in che lingua stesse rappando (spoiler: italiano).
Ho notato che nei talk show televisivi i relatori ospiti si fanno inquadrare sempre dinanzi una libreria. Alle volte scarna, altre ben più fornita, un giorno ho individuato anche un Capitale. Dettagli non propriamente di poco conto di questi tempi.

Nel frattempo la stessa tv è divisa: ci sono i triti servizi con sottofondo musicale malinconico inerenti ospedali al collasso, pazienti intubati e parenti in lacrime. Il focus della telecamera si sofferma sulle lacrime che scorrono copiose sul volto di una giovane.
Giro stizzita per quella manifestazione di impudicizia. E che diamine. Non si può speculare così profondamente sul dolore come in un servizio di Studio Aperto qualunque.
Lo zapping mi spinge su uno schermo composto da dati, statistiche, grafici e istogrammi: non vuoi empatia? Beccati il cinismo calcolatore dei numeri. 8000 mila morti, 10mila contagiati, +10% di guariti, -12% della borsa, + 9% della borsa, et similia. Ingoio un boccone amaro e prendo a fare il caffè. Si prospettano tempi da far paura.

L’immagine della settimana, dato che il signore seduto (il Van Gogh padovano) ha dovuto obbligatoriamente togliere – di fretta e furia per la pioggia – la sedia di vimini (col cuscino rosa) dal poggiolo, è mutata.
Questo sabato dono a tutti voi l’immagine che ho dinanzi la finestra (…e che culo direte voi), il parco vuoto, senza nessun bambino, con le altalene che cigolano acute ad ogni soffio di vento.

 
 
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