L'amica geniale - una tetralogia da vivere

La mia esperienza

23 Marzo 2020

“Grazie” (eufemisticamente) alla quarantena forzata, sono riuscita a terminare la tetralogia dell’Amica Geniale, la serie di romanzi di Elena Ferrante suddivisi in L'amica geniale (2011), Storia del nuovo cognome (2012), Storia di chi fugge e di chi resta (2013) e in Storia della bambina perduta (2014).

Mi sono addentrata nella lettura di questi romanzi piuttosto recentemente: ho iniziato il primo romanzo per curiosità, qualche mese fa, dopo un’ora in stazione in attesa di un treno alta velocità per Salerno. Lo store-libreria della stazione di Padova aveva in vetrina tutta la serie, con tanto di cartellone con l’immagine tratta dalla serie televisiva Rai.

Nonostante conoscessi la fama ed il successo che la serie di libri e quella televisiva avevano riscontrato, nutrivo dei forti dubbi sul fatto che potesse piacermi, e vi spiego, con sincerità, perché.
Quando scelgo un libro da leggere normalmente rifuggo dai best sellers acclamati, e soprattutto, dall’alto della mia spocchia, dalla notorietà nel pubblico medio. Quest’ultimo indicatore per me, è una spia che mi allontana con automatismo, come se il grande pubblico non possa poter avere i miei medesimi gusti letterali.
Probabilmente in me vi è un’eccessiva e disinibita prostrazione nei confronti della lettura di nicchia, oppure, di quella dei classici indissolubili, magari perduti nel tempo e nel ricordo.

Lo ammetto, nei gusti letterali mi trasformo in un’odiosa radical chic dell’ultim’ora.
Tuttavia acquistando quel primo volume ho migliorato il tiro: quel che avevo tra le mani è stato senza alcun dubbio l’inizio di una storia che mai abbandonerò dalla mia memoria.
Un romanzo del cuore, come Il Piccolo Principe, Lo Straniero di Camus o La Nausea di Sartre, che è entrato immediatamente nella mia top five personale.

I libri, nonostante la loro stazza (1600 pagine totali) sono stati fagocitati in pochissimo tempo rispetto ai miei standard, che normalmente sono un po’ troppo a rilento per via della miriade di impegni di routine.
Quel che ho appreso fin da subito, senza fare alcuno spoiler, è che l’autrice (o l’autore? Ricordo che non si conosce l’identità) ha scritto un romanzo dai tratti storici, che ripercorre senza nulla tralasciare, la storia d’Italia, a partire dagli anni ’50 sino agli anni ’00, il tutto dallo sguardo delle due protagoniste fanciulle prima, ormai anziane, dopo.
Nell’incipit c’è un mondo diviso in due all’esterno di un Rione napoletano che nulla sa, mentre le vite scorrono grigie tra le mura cadenti, imperterrite, troppo occupate alla propria sopravvivenza, all’accaparramento del pane quotidiano, senza dar troppo fiato a sciocchezze come la politica, l’idealismo o, addirittura, la scuola. Ci sono protagonisti arricchiti dalla borsa nera e dal contrabbando durante la guerra o dalla ricostruzione del dopo guerra, dalla speculazione nell’industrializzazione e, ovviamente, della mafia.
Il Rione di Napoli è il cerchio concentrico dove tutto si riavvolge: le due protagoniste sono bambine e iniziano a frequentarsi nel cortile, tra i palazzi stretti e cupi, con le proprie rispettive bambole di pezza ed insieme riescono ad acquisire la licenza elementare, non senza sacrifici.
Con alcuni soldini, frutto di una delle prime avventure insieme, acquistano il primo romanzo, Piccole Donne, galeotto ispiratore per la scrittura di un romanzo a pastelli La Fata Blu, una sorta di manifesto colorato di sogni e aspirazioni.
La licenza elementare era un traguardo da sventolare come una bandiera, un orgoglio in un posto in cui l’analfabetismo dilagava, e solo i più ricchi o più aiutati, come nel caso di Lenuccia, proseguivano gli studi.

La vita nel Rione è caratterizzata da tantissimi spiragli di riflessione: le donne sottomesse a mariti despoti, le mani pesanti degli uomini sui loro volti, l’indisponenza degli arricchiti sulle spalle dei miserabili che mai nascondono i loro agi, magari sfrecciando a tutta velocità con un millecento sullo stradone, allora non propriamente frequentato da automobili. C’è uno schifo diffuso per gli aguzzini e gli usurai, ma, in contraddizione con esso, è viva e vegeta la voglia di equipararli e raggiungerli in agiatezza e spavalderia.
Tanto c’è sul ruolo della donna nel mondo e della relazione tra donna e donna. L’esser figlia, l’esser madre, l’essere amica. Dall’idealizzazione della donna angelica e rimettente si passa alla sua frammentazione attraverso l’immagine della donna procreatrice, dai tratti maschilizzati e rozzi e dai toni sguaiati, mentre stuoli di infanti le tengono la veste mentre il moccio di uno scorre dal naso. Vi è poi l’apoteosi dell’annullamento femminile, attraverso la figurazione della donna pazza ed urlante, ammattita dalle pene d’amore.

C’è la voglia di spogliarsi da tutte le categorie cucite addosso e divenute strette: Elena, protagonista narrante, prova i sentimenti più disparati: in primis la gelosia, che sfocia in una sorta di competizione con la sua amica Lila, dai tratti geniali e incomprensibili, non facilmente decifrabili. Elena vive la sua vita in un riflesso sbiadito, senza mai realmente appassionarsi a qualcosa, appiattendosi su quel che accade, in una sorta di esistenza monocorde, specie se paragonata a quella di Lila. Lo stesso studio resta nozionistico e statico: senza una vera acquiescenza e presa di coscienza dei manuali che con tanto ardore sfogliava.
Lila dal canto suo viene imbottigliata da un giogo arguto, architettato alle sue spalle dalla sua famiglia di origine e dal suo futuro marito, dalla quale, vien fatta merce di scambio deprezzata. Diviene un bene di proprietà, ed in quanto tale, da impossessare anche con violenza e sangue, in un’Italia in cui non esisteva il divorzio, e le convivenze coniugali erano, sino alla fine, forzate e coattive. Unica alternativa: scappare con nemmeno un soldo bucato in tasca, vivendo di stenti.
Il suo sforzo profuso nella lettura, diventa occasione per volare fuori dalle gabbie rionali, in fantasia e conoscenza, creando fili rossi tra la letteratura e il presente, ricavandone insegnamenti o critiche ben sferrate.

Seguitando nella vita delle due giovani donne, si ritrovano sul cammino storie di lotte contro i fascisti, violenti e asserviti al padrone di turno, oltre che storie di lotte operaie, tra consigli, riunioni e lotte intestine.
Quando il mondo di Lila, ben abituata a miseria e sofferenza, si scontra con la borghesia di sinistra, non può che nascere un corto circuito interno: le parole dei comunisti appaiono vacue e superficiali, nonostante siano intarsiate di ghirigori, incomprensibili ai più, specie se rivolte alla classe operaia di San Giovanni a Teduccio. La lotta del proletariato contro il capitalismo post-fordista, è una lotta degli oppressi contro gli oppressori, che va ben oltre le parole marziane dei figli frivoli di una classe agiata.

Dal politico al personale: la vita delle due sarà intarsiata di salite e rapide cadute nel vuoto, tra tradimenti, insoddisfazioni e consapevolezza di non farcela: ed è qui che entra in gioco la Smarginatura.
Il concetto della smarginatura, che ritorna nel corso della narrazione, è difficile da spiegare appieno. Se la mia interpretazione è giusta, direi che trattasi di uno sgretolamento di se stessi, dovuto alle immani sofferenze vissute, ai colpi parati e mai restituiti, sperando prima o poi di esser risucchiati dalla Terra stessa.
Anche se Elena, dopo il liceo classico, deciderà di lasciare Napoli, il suo accento la caratterizzerà lungo lo stivale, restando una studentessa flemmatica e diligente, ma senza cognome e origini prospere, ed in quanto tale destinata a non essere più di una maestra. La sua crescita, intellettuale e sessuale, accompagnerà il suo percorso universitario, tra piaceri e nuove esperienze, fuori dal luogo comune della donna del sud illibata e consacrata nel sacro vincolo del matrimonio religioso, ma seguitata come per moda, e non per vera e propria convinzione idealistica.
Il suo arrivismo verso una vita diversa rispetto a quella abbandonata alle proprie spalle, la porterà ad intraprendere scelte nebulose e scellerate, rinchiudendosi tra mura domestiche e libri da scrivere, fino alla rinnegazione totale del sé per via di un amore dissoluto e, dall’altro lato, non propriamente disinteressato.
Lila irruente e scontrosa, invece, spezzerà le sue catene interne vivendo una vita diversa da quella che gli altri avrebbero prospettato, pur non senza merda da spalare e schifo da sopportare, in una vita ben lontana da soprusi e vigliaccherie.

Mi sono a lungo domandata se fosse esatto dire che il romanzo de L’amica geniale narrasse di un’amicizia, probabilmente sì, ma sarebbe fin troppo riduttivo fermarsi qui.
Le descrizioni delle pagine argute della Ferrante sono un corpo vivo, ben localizzato nel tempo e nello spazio, che mai traballa in peculiarità di dettagli. Un corpus vivo ben comprensibile anche al di fuori di Napoli, che narra di un’Italia frammentata e traballante, che vive i fasti della ricostruzione e che subito cade negli inferi della repressione più ardita degli anni ’70, che trema ad ogni bomba che scoppia in stazione e sputa sangue ad ogni sequestro. Che rivive nuovamente nell’opulenza degli anni ’80 ma subisce una rapida frenata con gli scandali della corruzione pubblica.

Leggere L’amica geniale significa attraversare di decennio in decennio la nostra storia, contraddittoria ed iniqua, negli sguardi ora lucenti, ora vacui, di due donne tanto diverse, ma amiche, a modo loro, geniali.

 
 
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