"La casa del sonno" di Jonathan Coe - Recensione

Un racconto estremamente attuale, che in tempi non sospetti (1997) tratta di tematiche quali sessualità, violenza, questioni di genere.

12 Marzo 2020

Gregory è morbosamente affascinato dal sonno altrui. Terry durante l’università dormiva quattordici ore al giorno, mentre ora non dorme affatto. Robert è trasognato, scrive lettere meditabonde e analitiche, non fa che pensare a Sarah. E Sarah è il filo rosso che congiunge tutti i personaggi de La casa del sonno di Jonathan Coe, ambientato nel 1984 nei capitoli dispari, e nel 1996 in quelli pari. Approccio romanzesco stravagante, che va di pari passo con le personalità fuori dal comune degli studenti descritti.

Quella che una volta era una residenza universitaria, negli anni ’90 diventa una clinica in cui si studia la narcolessia: il direttore è Gregory, alias dottor Dudden, l’ex fidanzato di Sarah. Ai tempi della loro relazione amava guardarla dormire, abitudine che denoterà successivamente un’ossessione malsana per le creature dormienti, nonché un disprezzo del sonno in quanto mero spreco di tempo nella vita di un essere umano. Il soggetto che più lo affascina è Terry, critico cinematografico perennemente insonne, lavora come freelancer ed è un vecchio amico di Robert, che nessuno vede più da dodici anni. La trama intricata si sbroglia pagina dopo pagina, segreto dopo segreto, e tutto riporta a Sarah, che ora è un’insegnante e ha imparato a convivere con le sue allucinazioni. Ma lo sono davvero? L’approfondimento sulla narcolessia mette in luce come il velo infinitesimale tra il sonno e la veglia la porti a confondere realtà e finzione, causandole una concezione confusa di linea temporale, dubbi sulla propria sessualità e domande riguardanti l’essere donna in un periodo storico in cui gender equality e contemporaneità non vanno esattamente a braccetto.

La cittadina inglese di Ashdown prende forma ai nostri occhi con pigra lentezza, delineando un panorama a tratti cupo, spesso movimentato, alle volte fastidiosamente statico. Non è difficile immaginarsi un quartetto di studenti seduti al tavolo del Caffè Vallandon, che fumano sigarette e credono di parlare di politica, teatro, cinema, ma che implicitamente discutono dei segreti più profondi dell’Io. Camuffandoli molto bene, però. Ne emerge un quadro confuso, per nulla lontano dalla visione annebbiata di Sarah, forse la più vicina alla verità: ai suoi occhi stanchi, che si chiudono quando meno se l’aspetta, sbiadiscono i contorni di una società troppo sicura di sé, facendo così emergere le discrepanze del mondo imperfetto che li ospita.

Si chiede tra sé Robert: «Sarah finalmente mi amerebbe, se io fossi donna?».
E invece Terry: «Dovrei forse adattarmi alla critica mainstream, abbandonare la mia individualità?».
Gregory non si chiede nulla, se non come ridurre le ore di sonno per raddoppiare la produttività. Ma a noi non piace Gregory.

Quanto a Sarah, si chiede se gli uomini sotto sotto siano tutti misogini. E se è vera la frase origliata una volta in un bar, ovvero che l’oggettività è in realtà la soggettività maschile, e in che modo una tale consapevolezza influirà sulle sue scelte. Un malloppo non da poco, per quella che doveva essere una chiacchierata tra amici.

Gli spunti che offre Coe sono tanti e terribilmente attuali, considerando che è trascorso quasi un trentennio e che lo spirito guida patriarcale e capitalista se n’è rimasto al suo posto senza scomodarsi; con la giusta chiave di lettura, però, ci potremmo sedere anche noi al tavolo con loro, tentando di reinventarci e di sradicare un altro pezzetto del modello educativo discriminatorio che da ormai troppo tempo veglia indisturbato, mandandolo così definitivamente a dormire.


Autore: Jonathan Coe, Birmingham, 19 agosto 1961. Ultima pubblicazione Middle England, edito Feltrinelli.

Casa editrice: Universale Economica Feltrinelli

Traduzione: a cura di Domenico Scarpa

 
 
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