Il contagio di Andrew Weatherall

di Andrea De Rocco

22 Febbraio 2020

Il 17 febbraio scorso ci ha lasciato a soli 56 anni Andrew Weatherall, l’artista che più di ogni altro contribuì a mettere in comunicazione la mia formazione rock/wave con l’elettronica da dancefloor.
Un breve omaggio all’uomo del “sound contaminato”

Nei media, nelle élite economiche e finanziarie, fino ai discorsi che senti in treno, sul posto di lavoro, al bar, al mercato, in ogni luogo domina la paura del contagio.
Ora quello del “corona virus”, ma oggi come ieri, ogni tanto emergono contagi, elementi estranei da evitare.
Ma “contagio” non è una parola solo al negativo, anzi.
C’è un bacillo che m’ha sempre felicemente contagiato: è quello delle idee, quello culturale, quello che attecchendo cambia il soggetto arrivando a modificarne la visione del mondo.
Occupandomi di musica, che da sempre è fatta di contaminazioni, non posso che avere un rapporto contraddittorio con la parola “contagio”.
Alla fine degli anni 80 emergeva nel panorama musicale la cultura rave ed io, provenendo da una formazione di derivazione rock, provavo un certo fastidio per la musica puramente dance. Oggi sembra impossibile ma rock e dance all’epoca erano musiche agli antipodi, o si ascoltava il rock e le sue derivazioni (post punk, wave, indie..) oppure si era dell’altra parte e si sceglieva la disco music, la prima house.... Questa contrapposizione durò fino all’emergere di un suono che fu definito “contaminato”.
Una band più di altre contribuì all’ascesa del crossover tra rock e dance e si chiamava Primal Scream. Successe che il gruppo di Bobby Gillespie chiese all’amico dj Andrew Weatherall di remixare il loro “I’m losing more than I’ll ever have”, un brano chiaramente influenzato dai Rolling Stones. Mantenendo le chitarre ritmiche, le improvvisazioni al pianoforte, gli interventi dei fiati e altri elementi dell’originale, Weatherall costruì un brano completamente nuovo. Ritmo funky pesante, campionamenti della voce di Peter Fonda dal film “I Selvaggi” che ripeteva “Vogliamo essere liberi, vogliamo essere carichi” , un titolo nuovo di zecca (Loaded) trasformarono il pezzo nel risultato migliore che la contaminazione di generi contrapposti potesse esprimere.

Da quel momento molti artisti pop e rock misero a disposizione in la scatola di montaggio dei loro brani per farli rimontare da dj e produttori in svariati modi.
E proliferò il mash-up: un modo di dire Creolo che ci parla di fare ibridazione, poltiglia, distruzione creatrice di nuovi incroci e contagi.
Molti musicisti iniziarono a considerare le loro opere non più fisse o immutabili, e cominciano a sperimentare il gusto di perdere il controllo su di esse per vederle divenire altro.
Col passare del tempo la disposizione al contagio è divenuta totale, la versione definitiva e unica di un brano non esiste più, ed è normale che un pezzo abbia svariate versioni.

Quello che Andrew Weatherall ha portato nella scena musicale è stato semplicemente rivoluzionario, perché ci ha fatto comprendere quanto sciocco fosse ragionare ancora per generi, per compartimenti stagni, e ci ha liberato dalla paura del contagio.

 
 

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