The Flaming Lips – Oczy Mlody

by MonkeyBoy (Vinylistics)

24 Gennaio 2017

Lo scorso tredici gennaio i Flaming Lips hanno pubblicato il loro quattordicesimo album in studio, Oczy Mlody. In più di trent’anni di carriera Wayne Coyne e soci hanno fatto tutto quello che potete immaginare, ma moltiplicato per tre. Hanno stravolto il proprio sound con un LP, Zaireeka, che in realtà erano quattro cd da ascoltare contemporaneamente; hanno inciso il loro nome su pietre miliari della modernità come The Soft Bulletin e Yoshimi Battles the Pink Robots; ma più di tutto hanno sperimentato, spostato avanti i propri limiti, donandoci dischi complessi e discussi come Embryonic The Terror, la loro ultima fatica datata 2013.

Ovviamente questa è solo una piccola parte della storia ma non potevo dilungarmi troppo nello spiegone per quelli di voi che hanno più o meno sedici anni o che sono rimasti chiusi in un bunker a digitare sei numeri ogni 108 minuti. Dunque arriviamo al punto: Oczy Mlody – che in polacco significa ‘eyes of the young’ (lo scrivo in inglese perché poi capirete) – vede il nucleo dei Flaming Lips così come lo avevamo lasciato dopo la cacciata di Kliph Scurlock. Wayne Coyne, Michael Ivins, Steven Drozd, Derek Brown ed un paio di altri collaboratori hanno registrato tra la natia Oklahoma City e New York insieme al fidato Dave Fridmann (col supporto di Scott Booker). Gli ultimi anni sono stati quelli dei lavori della serie Fwends e della collaborazione con Miley Cyrus ed il suo Dead Petz. Prima di capire quanto tutto ciò abbia influenzato questo album lo stesso Coyne ha dato una vaga idea di cosa aspettarci, con un laconico ed inquietante “Syd Barrett che incontra A$AP Rocky” e tanti saluti alla sanità mentale.

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Che poi non è nemmeno una metafora così strampalata. La title-track che apre i giochi, al di là di essere poco più di una (in)utile intro in stile xx, ha però il merito di dimensionare l’ascoltatore al mood che seguirà: beat pulsanti, atmosfere livide, synth ed elettronica a piovere. Quindi la quota A$AP Rocky deve risiedere nel groove, idea rafforzata dalla stupenda How??, un synth-rock acquoso coi bassi super carichi, che dipinge scenari a metà tra utopia (“Legalize it, every drug right now”) e distopia (“We were young with our baby guns”) nella tipica maniera fintamente ingenua dei Lips. La quota Barrett allora risiede per forza nel carattere trippy e malinconico che pervade l’intero disco, a partire dall’elettro-pop di There Should Be Unicorns, brano interessante in cui la voce delicata di Coyne contrasta con la pesantezza della confezione, purtroppo rovinato da un discutibile finale in cui la voce narrante di Reggie Watts disquisisce di unicorni dagli occhi viola, della loro cacca e di amore universale. Va be’.

Oczy Mlody è stato pensato e realizzato nell’ottica di uno stacco, un cambio di direzione rispetto all’oscurità di The Terror ed in generale all’inclinazione acida delle ultime cose della band. Vuole essere melodico ed orientato alla forma-canzone come in Sunrise (Eyes Of The Young) – una contro title-track, ballad gentile di sintetizzatore e pianoforte ma che ad un ascolto più attento si rivela in parte cover di The Floyd Song (Sunrise) della dannata (scherzo) Cyrus. Ebbene, questo riferirsi ai sopracitati Soft Bulletin e Yoshimi, con un carico di allegria in più, rigettando in qualche modo le inclinazioni sperimentali e complicate di Embryonic e, di nuovo, di Terror riesce solo in parte. Perché di questi ultimi due Oczy è indubbiamente figlio, e lo si capisce da pezzi come Nidgy Nie (Never No) Galaxy I Sink. Il primo è un delicato brano semi-strumentale a metà tra r&b d’avanguardia e funk robotico, il secondo è una specie di filastrocca dissonante impreziosito dagli archi; entrambi mutuano dal recente passato la lentezza e la cupa nebulosità rarefacendola in spazi più ampi e meno claustrofobici, è vero, ma il cordone ombelicale c’è e si vede.

Uno dei problemi con questo lavoro è che vive di momenti tutto sommato trascurabili (tipo Almost Home) ed altri invece grandiosi. Tra questi c’è di sicuro il prog elettronico e percussivo di One Night While Hunting for Faeries and Witches and Wizards to Kill che al di là del titolo impossibile (ma in piena tradizione) spacca letteralmente in due l’album e sottolinea – con gli unicorni di prima e The Castle poi – quello che è il tema lirico fondamentale: il mondo della fiabe, declinato sul doppio binario della vita e della morte, come in un piano della realtà apocalittico ma esilarante al tempo stesso. Senza soluzione di continuità arriva l’intrigante Do Glowy – ed il suo uso massiccio di Auto-Tune alternato al cantato naturale – che a sua volta fluisce nella neo-psichedelia della lunga Listening To The Frogs With Demon Eyes che, oltre a reiterare il tema della morte (“Have you seen someone die?”), è significativa di una seconda parte più luminosa ed affermativa. Il dream-pop angelico e fluttuante della notevole The Castle non fa confermare questa tendenza: arpeggi di synth cosmici e testi trasognanti (“Her eyes were butterflies, her smile was a rainbow”) ci dicono che dopo averci messo per anni alla prova e deliziato in ogni modo, ora i Flaming Lips forse vogliono solo lasciarsi ascoltare.

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Hanno sempre usato concetti e temi anche piuttosto astrusi per migliorare la fruizione della loro musica e qui non fanno diversamente. Certo, ci sono un paio di questioni da capire bene. La prima riguarda Miley Cyrus. Ora dobbiamo affrontare la cosa: se da una parte è chiaro il reciproco beneficio del loro rapporto – lei si dà tono ed importanza attraverso di loro, i Lips si svecchiano e trovano un’improbabile musa sui generis per il loro finale di carriera – dall’altra rimane oscuro cosa resterà della sua influenza sulla band a lungo andare...continua su Vinylistics

 
 
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