Agnes Obel – Citizen Of Glass

by Aria (Vinylistics)

7 Dicembre 2016

“These bare bones are made of glass “

Per le nostre ossa di vetro l’imminente arrivo dell’inverno può solo moltiplicare il numero di ostacoli che affrontano ogni giorno nello scontrarsi con la vita. Questa è una delle interpretazioni più tristi – ma certamente non l’unica – che gravita intorno al concetto di “vetro”, espresso nel nuovo disco di Agnes Obel.

La cantautrice danese è tornata col suo terzo album in studio, sempre lì a Berlino dove vive ormai da un po’ di anni e dove ha dato i natali anche ai suoi due precedenti capitoli Aventine e Philharmonics. Stavolta però la storia è molto più di una serie di brani che esprimono l’essenza elegante e minimalista di una musicista folk che deve parecchio alla sua formazione classica. Stavolta la Obel ha sviluppato una vera e propria opera ispirata ad un articolo del Der Spiegel che tratta il concetto di “Gläserner Bürger” (cittadino di vetro, appunto) parlando degli uomini come delle “persone trasparenti” in balia della costante e ossessiva necessità di condividere le proprie informazioni, dalle meno alle più private, col resto del mondo.

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La giovane compositrice parte da questa idea sviluppandola attraverso varie interpretazioni impegnate nell’elaborazione di noi stessi sia in chiave introspettiva ma anche rispetto alla visione percepita dagli altri. Il tutto è immerso in atmosfere spettrali ed evocative, tanto che sembra quasi di essere catapultati in un thriller in piena tensione emotiva. E non solo per la copertina fortemente ispirata a Gli Uccelli di Hitchcock. Citizen Of Glass apre una nuova fase evolutiva anche dal punto di vista sonoro che diventa più corposo distanziandosi dal minimalismo del passato, affidato più che altro alla voce e al piano, incorporando in questo lavoro una serie di elementi orchestrali (clavicembalo e quartetti d’arco in primis) incaricati di tirare su una struttura più complessa ma sempre all’insegna della seducente eleganza che caratterizza dagli inizi Agnes Obel.

Stretch Your Eyes è il perfetto manifesto di questa opera dal mood dark: cinque minuti di bellezza trattenuta in una cadenzata marcia spettrale, cullata dalla delicatezza degli archi e resa conturbante dall’utilizzo del Trautonium, una sorta di antenato del sintetizzatore.

È anche e soprattutto la voglia di sperimentare con le nuove tecnologie che sostiene tutte queste strutture senza che ci sia mai un momento ridondante in questi dieci brani. In Familiar, che a dispetto del titolo ha poco di familiare e rassicurante, Agnes intraprende un duetto con…se stessa: con una tecnica alla Låpsley si cala nei panni di un uomo, grazie alle regolazione della voce, abbassandola di parecchie ottave. Manipola e distorce la sua voce più volte nella riproduzione di questo disco. Lo fa anche in brani come Trojan Horses e Citizen Of Glass: la prima è la traccia da cui è stata tratta la citazione fatta all’inizio di questo articolo ed è uno dei pezzi più suggestivi del lotto con la sua atmosfera oscura e solenne allo stesso tempo. La voce della Obel proprio come il vetro è fragile e sembra quasi frantumarsi in tanti piccoli pezzi pronti a fluttuare nell’aria. La title-track invece è una ballad eterea che suona in punta di piedi sul filo della malinconia.

Per la Obel è sconvolgente, quasi inaccettabile, che la gente oggi respinga in questo modo il proprio diritto alla privacy. Infatti i suoi testi, al contrario del tema trattato, sono tutt’altro che trasparenti e diretti. I suoi pensieri e sentimenti più intimi sono celati dietro la delicatezza di una voce straordinaria, capace di elevarsi dalla sfera terreste in acuti celestiali e di tornare a toccare la profondità terrene con un timbro caldo e seducente. Perfetto esempio di ciò è Golden Green, brano ispirato al libro del 1927 Envy di Yuri Olesha, che parla di come il pensiero della mente possa essere influenzato dall’invidia distorcendo la realtà dei fatti. La vocalità di Agnes si intreccia in un loop di cori sovrapposti e si distende su una base sonora evocativa ed esotica.

Nonostante le tematiche sociali riguardanti la collettività, c’è tanto di personale in questo lavoro. Due anni fa la Obel ha perso suo padre e anche se in nessuna delle dieci canzoni parla esplicitamente di perdita o di morte, il senso di tristezza che le lega tutte si fa sentire forte. Soprattutto nei due pezzi strumentali Red Virgin Soil e Grasshopper che emozionano profondamente con la sezione d’archi, indiscussa protagonista del disco...continua su Vinylistics

 
 
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