Bon Iver – 22, A Million

by Aria (Vinylistics)

4 Ottobre 2016

Da quando nove anni fa abbiamo ascoltato For Emma, Forever Ago, Justin Vernon non ha mai davvero lasciato le scene e quella baita nel Wisconsin, più che per la persona fisica, è diventata un rifugio per l’anima che in un modo o nell’altro, colui che conosciamo col nome di Bon Iver, si è sempre portato dietro nella sua musica.

Per uno che fino a poco fa aveva sfornato due soli album sembrerebbe anche troppo forte l’espressione “la sua musica”. E invece Vernon, che di pause lunghe non ne hai mai fatte veramente, lo sappiamo riconoscere ormai tutti, nelle sue cose e in quelle degli altri. C’è una sorta di misticismo e adorazione legati a questa persona che pare quasi sia una religione, il vernonismo, e il praticarla o anche il solo avvicinarsi ad essa, crea una dimensione di profondità e di dipendenza in cui si viene risucchiati e tante cose belle magicamente accadono. Lo sanno bene tutti coloro che ascoltano e amano la sua musica ma ancora meglio tutti gli artisti con cui ha collaborato, a partire dai progetti paralleli come quello con i Volcano Choir alla recentissima apparizione nell’ultimo di James Blake per poi passare all’amicizia con Kanye West che lo ha definito “suo artista vivente preferito”. Pare che l’unico a non essere pienamente convinto di tutto ciò sia proprio il cantautore stesso che tutto questo successo non lo voleva, o forse sì, ma di certo non se lo aspettava.

Bon-Iver

Così il vernonismo sembra essere una religione in cui credono molto di più tutti gli altri, dato che ogni suo lavoro è preceduto sempre da profondi momenti di crisi e se consideriamo che questo è il terzo album personale con tutto il peso di responsabilità che il “terzo album” di un artista in generale si porta dietro, il livello di crisi si alza subito e si moltiplica per cento. Basta guardare la sua copertina per capire che 22, A Million è un disco che contiene molto più di quello che a primo impatto si potrebbe definire come un semplice cambio di rotta. Certo, musicalmente parlando c’è in assoluto tutto quello che non ci si aspetterebbe dalla firma Bon Iver eppure dentro c’è tutto quello che Bon Iver è ed è sempre stato. Ma è anche molto più di questo. Senza entrare troppo nello specifico e nelle competenze che non ho, la moltitudine di simboli presenti sulla copertina ma anche nella tracklist stessa, mette bianco su nero tutte le cose della vita che si dividono tra comprensibili e sconosciute, tra bene e male, fluttuando nel mondo in un dualismo continuo in cui tutti ci imbattiamo. Tutto questo momento alla Piero Angela solo per dire che 22, A Million è filosofia, contraddizione, intimismo allo stato puro, espressi in un modo completamente inaspettato.

Ok, magari completamente inaspettato no. La collaborazione con James Blake aveva già fatto intuire qualcosa, poi questi dieci brani di 22, A Million hanno portato avanti il messaggio e lo hanno ampiamente raccontato. C’è qualcosa di spirituale fin dai suoi primi momenti in 22 (OVER S∞∞N) che cambia subito tutto lo scenario musicale concepito fino a ora, con le voci effettate e i suoni campionati ma ha un qualcosa di maledettamente caldo e sincero che riesce in un attimo a farci mettere nei suoi panni e a percepire tutte le ansie e i timori che prova nel suo cantare “it might be over soon”. Siamo di fronte a una persona che ancora una volta si imbatte nei suoi tormenti personali ma lo fa in modo molto più audace senza avere paura di lanciarsi in qualcosa che possa alterare gli equilibri. E allora si va di vocoder in  10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄  col suo tappeto di percussioni che rende il tutto molto più teso per un pezzo nato per combattere i demoni del suo autore… ma ci si può davvero lasciare andare in un’atmosfera così enigmatica e a tratti dissonante?

A un primo ascolto la risposta a questa domanda potrebbe cambiare da un brano all’altro ripetutamente. In pezzi come 715 – CRΣΣKS 21 M♢♢N WATER si potrebbe provare un eccessivo senso di esasperazione per la sperimentazione sonora forse un po’ troppo manipolata. Ma le ambientazioni di questo lavoro abbattono ogni dimensione di spazio e tempo e ogni traccia dà vita a un flusso di pensieri implacabile. Tutta questa successione di brani “non convenzionali” conquista subito credibilità. Potremmo forse riscontrare un po’ di ridondanza generale perché in realtà non ci va giù la voce di Vernon così tanto carica di effetti. Potremmo non capire subito tutte le urgenze di lanciarsi su questa strada, di abbandonare quasi completamente le chitarre e quella sfera folk che lo ha sempre contraddistinto. Ma personalmente, tutte queste osservazioni le ho accantonate nel momento esatto in cui a metà disco ho pianto – e dico pianto davvero – con 29 #Strafford APTS in cui ho ritrovato la baita del Wisconsin e 666 ʇ in cui l’atmosfera diventa quasi esotica e tutto è talmente evocativo da farmi vedere chiaramente ogni intento celato dietro a questo disco...continua su Vinylistics

 
 
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