“A Manual for Cleaning Women”, ora, a oltre dieci anni dalla morte dell’autrice, ritenuto a ragione uno dei testi letterari più belli del Novecento americano, è il titolo originale di questa raccolta, ovvero, “Manuale per donne delle pulizie”, dunque di tutto si parla qui fuorché di qualcuno che «scrive racconti»; piuttosto, le protagoniste di Lucia Berlin lavano pavimenti, prestano servizio la notte al pronto soccorso, preparano gli strumenti per un medico arrogante, insegnano scrittura creativa ai carcerati e spagnolo a ragazzi difficili in scuole di confine. A lettura ultimata, un’altra possibile traduzione del titolo sembrerebbe venire suggerita: “Manuale per pulire le donne”. Perché pare davvero che Lucia Berlin «pulisca» le sue creature attraverso la scrittura, le «mondi», le redima con la sua attenzione e la sua compassione.

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Lucia Berlin: “La donna che scriveva racconti” (9/10)

1 Settembre 2016

A Manual for Cleaning Women” di Lucia Berlin, ora, a oltre dieci anni dalla morte dell’autrice, ritenuto a ragione uno dei testi letterari più belli del Novecento americano, è il titolo originale di questa raccolta, ovvero, “Manuale per donne delle pulizie”, dunque di tutto si parla qui fuorché di qualcuno che «scrive racconti»; piuttosto, le protagoniste di Lucia Berlin lavano pavimenti, prestano servizio la notte al pronto soccorso, preparano gli strumenti per un medico arrogante, insegnano scrittura creativa ai carcerati e spagnolo a ragazzi difficili in scuole di confine. A lettura ultimata, un’altra possibile traduzione del titolo sembrerebbe venire suggerita: “Manuale per pulire le donne”. Perché pare davvero che Lucia Berlin «pulisca» le sue creature attraverso la scrittura, le «mondi», le redima con la sua attenzione e la sua compassione.


ReadBabyRead #297 dell’1 settembre 2016


Lucia Berlin

Sette storie da “La donna che scriveva racconti”

Manuale per donne delle pulizie
Buoni e cattivi
Dolore
La vie en rose
Macadam
Cara Conchi
Fammi un sorriso

(parte 9 di 10)


per info su F. Ventimiglia e C. Tesser:

Lettura e altri crimini
iTunes podcast


Legge: Francesco Ventimiglia


Jesse mi prese in contropiede. E io mi vanto della mia capacità di inquadrare subito le persone. Prima di entrare a far parte dello studio legale Grillig, ho fatto il difensore d’ufficio tanto a lungo che ho imparato a capire un cliente o un giurato quasi a prima vista.
Ero impreparato, anche perché la mia segretaria non l’aveva annunciato con l’interfono e lui non aveva nessun appuntamento. Elena lo accompagnò nel mio ufficio.
«Jesse vorrebbe vederla, signor Cohen».
Elena lo presentò con aria d’importanza, dicendo solo il nome. Era un uomo molto bello, ed entrò nel mio studio con tale autorevolezza che pensai fosse una rock star di cui non avevo mai sentito parlare, di quelle che hanno un nome d’arte che consiste di una sola parola.


Manuale per ripulire i personaggi dalla vita

"La donna che scriveva racconti": Lucia Berlin inanella fatti orribili, rendendoli divertenti, e personaggi credibili quanto basta a muovere il lettore a compassione

Julio Cortázar ha paragonato il racconto a una fotografia che, pur essendo racchiusa nello spazio – i limiti dell’inquadratura – e, nel tempo – l’attimo dello scatto – offre a chi la osserva la sensazione di superare quei confini, ovvero di percepire cosa è avvenuto prima del fatidico clic, e quel che seguirà subito dopo, magari arrivando a intuire anche ciò che l’immagine non mostra. Alla luce di queste considerazioni, la raccolta di Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti (traduzione di Federica Aceto, Bollati Boringhieri, pp. 464, euro 18.50) è simile a un album di famiglia le cui istantanee siano state scattate da Nan Goldin, la perturbante fotografa-diarista di The Ballad of Sexual Dependency.

Come Goldin, Berlin rappresenta se stessa, il proprio mondo, infantile e adulto, il proprio percorso di formazione, deformazione e trasformazione, segnato da esperienze dolorose e trasgressive di dipendenze e solitudine, creando una forte empatia tra i suoi personaggi – in primis, se stessa – e i lettori, grazie all’estrema nitidezza del linguaggio, e alla sua assenza di riserbo. Verrebbe spontaneo parlare, per Lucia Berlin, di autofiction, se questa etichetta non risultasse anacronistica, visto che la scrittrice americana trasformava in racconti i fatti della sua vita molto prima che i critici francesi coniassero il termine per indicare il sottogenere cui devono la loro fortuna i vari Modiano, Carrère e anche il nostro Walter Siti.

«Io esagero molto, e confondo la finzione con la realtà, ma non dico mai bugie», afferma una delle sue protagoniste. Del resto, nella vita di Lucia c’era già fin troppo materiale narrativo: figlia di un ingegnere minerario, visse nei distretti dove lavorava il padre fino all’entrata degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, quando la madre, rimasta sola con le due figlie, si traferì presso i genitori, in Texas. Della sua infanzia a El Paso, con una mamma e un nonno alcolisti, Lucia scrisse nei racconti, così come scrisse del dopoguerra, quando, al congedo del padre, la famiglia si spostò in Cile, dove la ragazza conobbe un periodo di eccezionale benessere e frequentò esclusive scuole private. Ma soprattutto, dai racconti apprendiamo dei suoi tre matrimoni, che la lasciarono, poco più che trentenne, con quattro figli e tre divorzi alle spalle; della sua lunga dipendenza dall’alcol, delle disintossicazioni e delle ricadute; dei molti lavori necessari a crescere da sola i figli; della grave forma di scoliosi che la tormentò fin dalla prima infanzia e che, arrivando a perforarle un polmone, l’avrebbe portata alla morte nel 2004.

Questa lista di fatti drammatici e brutali non deve trarre in inganno, così come non deve fuorviare la copertina del volume italiano, con quel titolo opinabile, che non rimanda a nessun racconto presente all’interno della raccolta, seguito dall’ancor più improponibile nota esplicativa: «Storie vere ma inventate. Come quelle di Alice Munro». Invano si cercherebbe nel mondo osservato dallo sguardo lucido e tagliente di Munro, la simpatia per gli emarginati, i reietti, i vecchi, i pazienti degli ospedali, in una parola, i perdenti che caratterizza i racconti di Lucia Berlin.

Il suo senso dell’umorismo, la sua capacità di sorridere empaticamente di fronte alle miserie della quotidianità – «Non mi dispiace dire cose orribili se riesco a renderle divertenti» – rimandano piuttosto alla leggerezza di Lorrie Moore, mentre la sua attenzione per i diseredati, priva di infingimenti ideologici, la sua capacità di «vedere» le persone che «per tutta la vita hanno avuto la sensazione di non esistere» non possono non riportare alla mente Grace Paley e la sua volontà di «ascoltare chi non viene ascoltato da nessuno». E tuttavia, il paragone con altre autrici o la ricerca di influssi si rivela sterile per questa scrittrice che riconosceva come suoi maestri solo due uomini: Cechov e Carver.

Un abbozzo di poetica lo si può invece trovare nelle sue stesse pagine, e precisamente in un racconto metanarrativo com’è «Punto di vista», dove l’autrice spiega che il suo intento, «combinando fra loro una serie di intricati dettagli», è quello di rendere i propri personaggi talmente credibili che il lettore non possa fare a meno di provare compassione per loro. Qui, Lucia Berlin confessa di prestare alla protagonista della storia che sta per scrivere, «sfondi e oggetti di scena presi dalla propria vita»: l’impiego presso un medico odioso, la scoliosi, lo stesso segno zodiacale e persino le posate eleganti con cui mangia un’insalata in solitudine. Segue poi il suo personaggio in una noiosa domenica che va dalla lettura mattiniera dell’oroscopo alla notte quando, mentre sorseggia una camomilla prima di addormentarsi, sente una musica dalla strada e solleva le veneziane per guardare di sotto. A questo punto, dalla terza persona il racconto passa bruscamente alla prima e l’autrice, dopo aver cominciato affermando che solo la narrazione impersonale conferisce dignità al personaggio, esce allo scoperto: «Mi appoggio contro il davanzale fresco … Ascolto la dolce musica di Polka Dots and Moonbeams. Nel vapore del vetro scrivo una parola. Che cosa? Il mio nome? Il nome di un uomo? Henrietta? Amore? Qualsiasi essa sia, cancello di corsa la parola prima che qualcuno possa vederla».

L’autofiction di Lucia Berlin è tutta qui, in questo gioco a nascondino tra creatura e creatrice, in questo svelarsi e negarsi allo stesso tempo che consiste nell’essere Henrietta o Loretta o Carlotta o qualsiasi altra delle figure femminili dei suoi racconti in terza persona e non essere mai completamente nessuna degli Io che narrano la propria vita nella maggioranza delle sue storie.

«La gente è affascinata dal proprio sacchetto della colostomia» scrive Berlin in un altro racconto. «Immaginate che il nostro corpo sia trasparente, come l’oblò di una lavatrice. Che meraviglia poter osservare noi stessi. Quelli che fanno jogging correrebbero con maggiore lena, il sangue pomperebbe con vigore. Gli amanti amerebbero di più. Per la miseria! Guarda come scorre il seme!». Quello rappresentato da Lucia Berlin è un mondo trasparente, ottenuto penetrando nell’intimità dei personaggi illuminati con raggi di luce ora morbidi ora affilati quel «sacchetto della colostomia» che è la loro vita.

Così di storia in storia i personaggi ritornano – la madre, il nonno, la sorella, la cugina, i figli, i mariti – e le loro storie, vissute nelle estreme propaggini dell’impero americano, nel New Mexico, tra la polvere del Texas, nella desolazione notturna di Oakland, oppure oltre confine, in Messico, in Cile, rimandano l’una all’altra echi e riflessi.

A Manual for Cleaning Women è il titolo originale di questa raccolta, ovvero, Manuale per donne delle pulizie, dunque di tutto si parla qui fuorché di qualcuno che «scrive racconti»; piuttosto, le protagoniste di Lucia Berlin lavano pavimenti, prestano servizio la notte al pronto soccorso, preparano gli strumenti per un medico arrogante, insegnano scrittura creativa ai carcerati e spagnolo a ragazzi difficili in scuole di confine. A lettura ultimata, un’altra possibile traduzione del titolo sembrerebbe venire suggerita: Manuale per pulire le donne. Perché pare davvero che Lucia Berlin «pulisca» le sue creature attraverso la scrittura, le «mondi», le redima con la sua attenzione e la sua compassione.

Silvia Albertazzi
il manifesto (Alias), 17.04.2016

 

Le Musiche, scelte da Claudio Tesser

Flying LotusFall in Love - Extended [Flying Lotus]
These New PuritansThis Guy's in Love With You [These New Puritans]
Harold BuddAbandoned Cities [Harold Budd]
These New PuritansField of reeds [These New Puritans]
Gabriella FerriCielito Lindo [tradizionale]
Gabriella FerriRemedios [Gabriella Ferri] 
The Album LeafWindow [Jimmy LaValle]
The Album LeafOver The Pond [Jimmy LaValle]
The Album LeafTwenty Two Fourteen [Jimmy LaValle]
The Album Leaf,Twenty Two Fourteen [Jimmy LaValle]
Harold BuddThe Pavillon of Dreams [Harold Budd]
Brian Eno & Harold BuddSteal Away [Eugene Bowen]
Brian Eno & Harold BuddFirst Light [Brian Eno]
Brian Eno & Harold BuddAbove Chiangmai [Brian Eno]
Brian Eno & Harold BuddThe Plateaux Of Mirror [Brian Eno]
Brian Eno & Harold BuddThe Chill Air [Brian Eno]
Brian Eno & Harold BuddAn Arc Of Doves [Brian Eno]
Brian Eno & Harold BuddAmong Fields Of Crystal [Brian Eno]

 
 

Copertina:
Etichette della versione inglese del libro “A Manual for Cleaning Women” di Lucia Berlin.

 
 

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