Imarhan – Imarhan

by MonkeyBoy (Vinylistics)

14 Luglio 2016

In questi primi sei mesi dell’anno i grandissimi album si contano sulle dita di una mano. Superata la perplessità per un 2016 finora non del tutto soddisfacente, ci si ritrova ad avere più spazio per lavori meno conosciuti. Tra questi si segnalano alcuni debutti di tutto rispetto, come l’esordio degli algerini Imarhan. Una band che vuole conciliare la tradizione con la modernità e nel frattempo cerca, nel solco della migliore tradizione epica, di spodestare i propri padri e prenderne il posto.

Le origini del gruppo non sono chiarissime. È certo, però, che Iyad Moussa Ben Abderahmane (alias Sadam), Tahar Khaldi, Hicham Bouhasse, Haiballah Akhamouk e Abdelkader Ourzig crescono tutti a Tamanrasset, città del profondo sud dell’Algeria e centro più importante della comunità tuareg di discendenza maliana. All’incirca nel 2006 decidono di mettere su una band che unisca il groove funky dell’Africa Occidentale – il loro riferimento principale è Ali Farka Touré – il folk tradizionale sahariano fatto di vuoti, toni discreti e tenui, il tutto con l’ardore romantico della musica raï algerina. In questo trionfo di eclettismo, l’ispirazione massima della nuova formazione sono ovviamente iTinariwen, storico gruppo del Mali del nord che ha fatto della commistione fra rock, blues e musica tuareg il proprio tratto distintivo da più di trentanni ed il cui bassista Eyadou Ag Leche è nientemeno che un cugino del frontman Sadam.

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Altre influenze degli Imarhan sono senza dubbio Mdou Moctar e Group Inerane ma a differenza delle distorsioni desertiche di questi, i cinque algerini hanno uno spirito più calmo ed appassionato, una complessità compositiva inedita data da anni di lavoro in studio e catartici live in giro per il mondo. La mossa decisiva per raccogliere parte del materiale prodotto e tirarne fuori l’omonimo LP è stata quella di farsi produrre dallo stesso Leche, che qui è anche co-autore di diversi brani.

Imarhan è stato registrato nella periferia parigina di Montreuil già a partire dal 2014, mentre le ultime canzoni sono state completate quest’anno. Pubblicato dalla label tedesca City Slang, il disco ha lo scopo allo stesso tempo ardito ed affascinante di cancellare l’idea che noi occidentali abbiamo della musica popolare tuareg. Per riuscirci, gli Imarhan smettono le vesti da tipici uomini del deserto e indossano jeans e giacche di pelle. Prendono quanto di buono la loro secolare tradizione abbia da offrire e vi aggiungono la musica che ascoltano – jazz, rock e blues – dando a questo miscuglio un irresistibile tocco funky.

A dire il vero mi sono avvicinato a questo album con qualche sospetto, vuoi per la lingua decisamente ostica vuoi perché la sciagurata possibilità di scadere nei cliché più banali era dietro l’angolo. Invece sono rimasto assolutamente colpito dalla sicurezza con cui gli Imarhan hanno confezionato poco più di quarantuno minuti di musica che sostanzialmente si alterna fra momenti riflessivi e trasognanti ed altri su di giri e schiavi del ritmo. Fra questi ultimi spiccano alcuni degli episodi migliori, come l’incalzante funky del singolo Tahabort che tra percussioni tribali e diverse linee di chitarra in staccato ritorna con grande realismo la confusione e le storie che si intrecciano nella piazza di Tamanrasset da cui prende il nome.

Altrettanto bene si comporta l’up-tempo Assossamagh, rock per chitarre il cui fulcro è, come del resto spesso nel disco, una parte ritmica precisa e stratificata quanto basta per reggere ritmi sì un po’ più alti ma al tempo stesso malinconici. Se Arodj N-Inizdjam ne è la gemella più sofisticata – grazie ad un riff illuminato ed alla sua ballabilità coinvolgente – la title-track è il vertice compositivo non solo di questo gruppo di canzoni ma di tutto l’album. A metà tra psichedelia, funky e groove afro-beat, questo sontuoso rock elettrizzante esprime finalmente gioia, trasmettendo con chiarezza l’idea che sta alla base del progetto: celebrare l’amicizia e la fratellanza, quel senso di appartenenza già insito nel nome del gruppo (Imarhan significa grosso modo ‘gli amici più cari’, la cumpa insomma).

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Se da una parte abbiamo dunque qualcosa di più fresco ed intricato del solito, dall’altra c’è molta sensibilità, una sorta di intimità che ci arriva immediata ma che ha radici lontane. Si tratta della nostalgia del deserto, assouf in lingua tuareg, ovvero la lentezza contemplativa associata al desiderio di solitudine fisica e spirituale delle popolazioni di quelle latitudini. Id Slegh è il ponte fra le due tendenze principali, ma è con pezzi come la delicata Tarha Tadagh – l’inizio sottotono che non ti aspetti – o come la sabbiosa e riflessiva Ibas Ichikkou che la spiritualità del deserto prende il sopravvento offrendoci delle vere e proprie perle a metà tra acustica e folk, mentre nel background si scopre sempre qualcosa di più di quel che sembra: piccoli loops, brevi suoni ed echi lontani.

La poetica degli Imarhan, i testi che – a quanto pare – parlano di amore, della società tuareg, di natura e del deserto, sono incentrati per lo più sulla vita urbana di città, a differenza di quanto ci si aspetterebbe ed in modo maggiore rispetto alla tradizione tamasheq ancestrale. Gli algerini sono più romantici, come nella ballata minimale Idarchan Net, inspessita dal basso e addolcita da un tocco melodico raffinato, e al tempo stesso più bohémien, come nel pizzicato di Addounia Azdjazzaqat. In quest’ultimo caso la ripetitività assume un valore fondamentale, soprattutto per quel che riguarda la vocalità, vero strumento aggiunto. La voce di Sadam sa essere concava o convessa a seconda delle necessità, appiattendosi nei passaggi più strumentali e avvitandosi in sonorità esotiche ed evocative come nella conclusiva Alwak, in cui un lento commiato ci riporta al deserto in cui ci perdiamo, là dove tutto era cominciato...continua su Vinylistics

 
 
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