La Pazza Gioia di Paolo Virzì

Recensione di Luigi Finotto

3 Giugno 2016

La Pazza Gioia . E' l'ultimo film di Virzi'.
Film interessante anche se , nella filmografia di Virzi' , c'è di meglio,come ad esempio l'opera precedente: ”Capitale umano”.
La vicenda in estrema sintesi è questa. Siamo a Villa Biondi, una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali. Tra le ricoverate ci sono Beatrice, una chiacchierona, logorroica, istrionica, megalomane e Donatella , una giovane donna fragile e silenziosa, alla quale hanno sottratto il figlio . Le due, diversissime tra loro, entrambe classificate come socialmente pericolose iniziano a frequentarsi e a stabilire un'inattesa complicità che raggiungerà l'apice in una breve fuga in cui cercheranno da una parte di riannodare i fili dolorosi e sbrindellati di un passato sbagliato e , dall'altra istanti di felicità o anche di semplice euforia . Al centro di tutto c'è la malattia mentale che Virzi' , qui, declina al femminile, quindi , con un sovraccarico di sensibilità e sfumature che il “femminile” ha in se, a prescindere dal disagio mentale o meno. Il film ha una impronta “basagliana” .
La malattia mentale si lega al disagio e rifiuto sociale: le due questioni possono scaturire l'una dall'altra e, comunque, non sono disgiunte. Ogni disagio mentale non è avulso della società e quest'ultima non può relegarlo e ghettizzarlo ,anzi deve farlo rientrare nel suo seno , come parte di se: la follia è anche un prodotto sociale e la società non può collocarla altrove da sè.
Le soluzioni meramente coercitive o strettamente farmacologiche/ospedaliere sono rimozioni del problema e la contrapposizione follia / sanità mentale è uno schema consolatorio e manicheo.


Questa è la premessa concettuale del film, quasi la cornice ideologica, e senza comprenderla è difficile capire a pieno la ragione , il senso e lo stesso sviluppo narrativo del film. La fuga delle due “matte” rappresenta proprio l'irruzione scomposta e caotica in quella società che le aveva rigettate in quanto non più' compatibili. Beatrice e Donatella riacquistano la loro soggettività nella fuga e, senza mediazione alcuna, affrontano la realtà, gestiscono le loro psicosi, maldestramente ma a modo loro, ricuciscono brandelli del loro passato, si scontrano,si fanno del male , cercano attimi di felicità , come fossero dosi di un farmaco da assumere per ripristinare la vita in loro. In questa giostra umana a volte tragica e altre colte comica , loro due appaiono agli altri nuovamente reiette ma ,nel contempo anche spiazzanti e inquisitorie,quasi fossero specchi deformanti nei quali i “sani” vedono riflessi i loro gesti passati ,come fossero , loro stesse, storie credute finite che ritornano , per rimescolare le carte , rimettere in discussione tutto e riprendersi il dovuto. Le “matte “ hanno molto da dire, da agire, da fare. Tutto si svolge in una splendida Toscana, tra i colli e il mare. Un ambiente che sa essere tenero ma anche ostile, che le due conoscono, che sanno maneggiare . La Toscana di Virzi', fa da sfondo a dinamiche complesse e umane, sempre meno relegabili allo schema rassicurante sani /matti. Sia ben chiaro che Virzi' non riduce mai la malattia mentale ad un fenomeno di eccentricità o bizzarria. Beatrice e Donatella sono mentalmente disturbate e come tali appaiono per tutto il film ma non per questo sono prive di una loro soggettività, capacità e volontà di dare direzione alla loro vita e alle loro giornate.

La fuga termina con un volontario rientro nella struttura d'accoglienza che appunto accoglie e non rinchiude, è un punto di approdo, una tappa e non un capolinea. La sceneggiatura, in un film molto di parola e sfumature, è fondamentale. La mano di Francesca Archibugi, qui co sceneggiatrice, è felice e si sente (aveva già affrontato analoghe tematiche ne “il grande cocomero”). Virzi mantiene ben saldo il ritmo della commedia, senza mai far calare la tensione emotiva, spesso drammatica, del racconto:questo nella migliore tradizione della commedia all'italiana di cui Virzi' è sicuramente il piu' brillante epigono . L'asse portante, vera rivelazione del film è Valeria Bruni che rivela persino doti istrionesche, capacità drammatica mai disgiunta da una inaspettata verve comico brillante. Virzi la mette nelle condizioni ideali e le cuce addosso un ruolo che esalta il suo particolare stile di recitazione: nevrotico, verboso, tormentato, attento a dettagli e sfumature . La Bruni trascina letteralmente il film dal registro comico al livello introspettivo maniacale. Beatrice (Valeria Bruni) è in effetti incontenibile: non tace mai , giudica tutto e tutti, è al di la di ogni regola . Indubbiamente è una donna intelligente, forse anche oltre la media e la sua intelligenza si esalta in un talento camaleontico da zelig : è fantastica la scena in cui si presenta a Donatella, appena ricoverata, come la psichiatra della comunità e in men che non si dica butta giu' diagnosi e cura,apparendo convincente o l'altra scena in cui si presenta alla famiglia adottiva del figlio sottratto a Donatella, per perorare la causa dell’amica riuscendo a spacciarsi per la psicologa e a farsi ascoltare. Micaela Ramazzotti, pur brava, è apparsa meno convincente della Bruni, un po troppo ingessata in una maschera rigida .

Bel film, coraggioso. Come tutte le opere a tesi (e questa lo è ) talvolta pecca di qualche eccessiva semplificazione ma sono sbavature che vengono assorbite dal valore generale del film.

 
 

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