Radiohead – A Moon Shaped Pool

by MonkeyBoy (Vinylistics)

19 Maggio 2016

Domenica sera durante i primi ascolti del nuovo album dei Radiohead, A Moon Shaped Pool, mi è venuta in mente questa cosa malata: qual è la forza di uno cerca di uccidersi ma non muore mai? I Radiohead sono circa 16 anni che ciclicamente provano a suicidarsi con scelte strategiche apparentemente scellerate. Dalla svolta elettronica di Kid A – quando erano appena diventati la più importante rock band al mondo – alla distribuzione paga-quello-che-vuoi di In Rainbows, dai 6 minuti di Paranoid Android alle dure prese di posizione politiche di Hail To The Thief , gli oxfordiani sono riusciti nell’impresa ineguagliabile di suonare le cose migliori delle ultime due decadi senza alcun compromesso, reinventandosi e spiazzando quasi ogni volta. Per il nono album il rischio non è stato tanto la campagna promozionale in cui sono spariti dai social ed hanno azzerato la presenza sull’internet (mettendo a nudo la vacuità di certe derive sociali) quanto il fatto che, proprio quando tutti se lo sarebbero aspettato, non hanno rivoluzionato praticamente nulla. Ci hanno costretto, e qui stanno la forza ed il genio, a concentrarci quasi esclusivamente sulla loro musica, pura e dalla bellezza devastante.

Radiohead-Promo

L’uscita del singolo Burn The Witch ha confermato qualcosa che circolava da tempo. AMSP è pieno di vecchie canzoni mai registrate in studio e presenti nei live nel corso degli anni (solo 4 su 11 sono inedite). La stessa lavorazione dell’album va dall’autunno del 2014 a tutto il 2015, in periodi diversi. In mezzo ci sono state diverse pause per assecondare i progetti solisti di Thom Yorke, Jonny Greenwood e Philip Selway, cambi nei metodi di registrazione – lavorando per sottrazione sui propri limiti – utilizzo di vecchia e nuova tecnologia e session in vari luoghi tra cui anche il sud della Francia. E poi c’è il trick dei brani messi in ordine alfabetico, una di quelle cose talmente Radiohead che pensarli a riarrangiare tutte le tracce per farle uscire così ti fa sanguinare la mente.

Se è corretto dire che non c’è nessuna novità in senso assoluto è altrettanto vero che proprio gli arrangiamenti orchestrali di Greenwood hanno un peso assai maggiore che in passato. Gli archi c’erano già in Climbing Up The WallsHow To Disappear Completely, nelle cose di Rainbows e addirittura di The King Of Limbs (Codex). Ma qui la collaborazione con la London Contemporary Orchestra assurge a elemento portante del disco, a partire proprio da Burn The Witch, pezzo nato nei primi anni ’00 ai tempi di Hail. Accanto a synth ed una drum machine sincopata, un trionfo di violini in staccato (col legno) crea un’atmosfera di tensione costante (“We know where you live”) mista a dissociazione (“This is a low flying panic attack”) su cui si muove un intrigantissimo pezzo obliquo, che può riferirsi tanto alla crisi dei migranti in Europa quanto al perbenismo sociale più ipocrita. Ovviamente, piuttosto che ai peggiori Coldplay, quest’uso degli archi va ascritto all’influenza su Greenwood di Krzysztof Penderecki, cui il chitarrista si è ispirato anni fa per la colonna sonora del film di Paul Thomas Anderson, Il Petroliere.

Il regista americano ha ricambiato girando il video di Daydreaming, a buon diritto definibile come il vertice compositivo del disco. A metà strada tra un valzer lento ed un’ode sospesa, parte da una struttura minimale, fatta di piano dolente ed impercettibili loops, per arrivare ad un crescendo di violini questa volta in un glissando cupo e minaccioso. Ha più di qualcosa di Kid A, soprattutto quando sul finale si sente in dissolvenza la voce di Yorke in reverse recitare i versi “Half of my life”. Si avverte, inoltre, una sorta di desolata dislocazione rafforzata più avanti (“Panic is coming on strong, so cold, from the inside out”) dalla ballad Glass Eyes, una lunga onda calda e vellutata in accordi minori che aggiunge la tonalità della tristezza ad un lavoro in gran parte intimista, che potrebbe designarsi, musicalmente e non solo, come compimento del percorso artistico/personale della band.

A tal proposito molto si è scritto (c’è anche un’immancabile teoria) sul fatto che A Moon Shaped Pool possa essere il canto del cigno dei Radiohead. L’accettazione dell’ansia e la pace con se stessi che sprigionano alcuni dei brani sopracitati potrebbero essere più di un indizio, ed anche momenti leggermente più aggressivi come l’abbagliante elettro-kraut di Ful Stop non lasciano che la tensione emotiva e l’oscura pulsione ritmica motorik ci distolgano dall’introspezione (“You really messed up everything”). Qualsiasi siano le premesse, i Radiohead arrivati fino a qui superano la loro stessa essenza materiale, godono di una libertà espressiva forse senza precedenti, svincolata da qualsiasi metodo compositivo precostituito. Così abbiamo anche un episodio di sommesso ottimismo come la sabbiosa Present Tense che – tra ritmiche da bossa-nova e cori da epopea western morriconiana – alleggerisce il sound, oppure come Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief, fumosa suite di elettro-orchestra che si ispira ad una nota filastrocca anglosassone del 1695.

Radiohead-02

Fra i tanti, AMSP ha il dono di riuscire a conciliare temi personali ed universali in modo incredibilmente naturale. “People have this power”“We’ll take back what is ours”. Così recita The Numbers, fluida protesta ambientalista di stampo jazz-funk, in cui l’ottima e complessa prova vocale di Yorke è suggellata da testi spirituali ed ispirati (“We are of the earthto her we do return”) che indicano la via piuttosto che ammonire. Allo stesso modo la semi-acustica Desert Island Disk stende concetti di amore universale ed empatica umanità (“Different types of love are possibles”) su un tappeto di lievi synth ed elettronica. Sono sussurri, leggeri accenni che rimangono nell’ombra ma che arricchiscono i brani e donano molteplici livelli di comprensione.

Con ben più forza, invece, vengono dispiegate le questioni personali, alcune delle quali – come la morte del padre del produttore Nigel Godrich o la separazione di Yorke dalla compagna Rachel Owen dopo 23 anni – sono sorte durante la logorante realizzazione del disco. In particolar modo la seconda ritorna più volte in questi 52 minuti, a cominciare dalla delicatezza di Decks Dark (“Have you had enough of me? Sweet darling”) sulla cui elementare melodia, costruita a partire da un breve giro di piano, si innesta una drum machine progressivamente sostituita dalla batteria di Selway, cori ed una declinazione elettronica ormai imprescindibile. Brani che crescono al procedere degli ascolti, come la micidiale Identikit, il momento più up-tempo di tutto l’album. Incentrata su un beat a metà tra Idioteque e le cose di TKOL e velata di malinconica tristezza (“Broken hearts make it rain”), è avvolgente e trascinante, arricchita dal coro della LCO e da un inusuale momento prolungato di chitarra che se non fossero i Radiohead potremmo dire si concluda con un assolo finale inaspettato e perciò vincente, che dà carattere.

È però nella conclusiva True Love Waits dove la spinta di Thom all’apertura e alla vulnerabilità esplode in tutta la sua desolata magnificenza....continua su Vinylistics

 
 
loading... loading...