David Vassalotti – Broken Rope

by MonkeyBoy (Vinylistics)

10 Aprile 2016

Ci sono band i cui componenti fanno gli amiconi di facciata ma poi nella vita privata si cagano a malapena (se non si odiano proprio). Poi ce ne sono altre che prima di tutto sono una cumpa di amici che condividono l’esistenza fuori e dentro lo studio o su e giù da un palco. I Merchandise di Tampa, Florida, appartengono senz’altro alla seconda categoria il che, pur non costituendo una formula per il successo assicurato, crea una sorta di connessione profonda che si riflette in diversi aspetti della loro vita.

Così non stupisce che in un momento di pausa generale, sia Carson Cox sia David Vassalotti – le due anime principali del gruppo – abbiano deciso di dedicarsi a progetti personali coltivati a lungo senza per questo ledere gli interessi collettivi. Dei Death Index abbiamo parlato due settimane fa, oggi è il turno del sophomore del chitarrista di origini italiane, dal titolo Broken Rope.

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Parlando della band, descrivevo Vassalotti come il tipo colto ed intellettuale, quello che è cresciuto con Dylan, Velvet Underground e Who, che suona diversi strumenti e che fa letture impegnate. Insomma, l’artista. Tutto ciò è molto vero, d’altra parte c’era pure lui a spaccarsi a bestia nei locali punk floridiani e questo aspetto selvaggio della sua natura è ben evidenziato dai side-project nei quali si è imbarcato negli anni – Cult Ritual, Neon Blud e Church Whip su tutti. A parte alcune cosefatte uscire sotto il moniker ( ), è nel 2011 che Dave pubblica il suo primo LP (ora introvabile) Book Of Ghosts smarcandosi momentaneamente dalla sua band per creare qualcosa di vagamente più autoriale e personale. A distanza di 5 anni è cambiato tutto, i Merchandise si sono fatti un nome e lui è uno dei chitarristi e degli autori più interessanti dell’ultimo decennio.

Scritto, suonato, registrato e prodotto dallo stesso David Vassalotti (quando ancora viveva con Cox e gli altri), Broken Rope (Wharf Cat Records) deve il nome ad un documentario su Pierre Henry in cui il compositore francese parlava del suono prodotto da una corda spezzata. Musicalmente influenzato dal caos e dalla confusione della vita moderna – di cui vuole essere incarnazione e colonna sonora – lungo i 43 minuti di durata l’album vive diverse vite declinandosi a seconda dei momenti tra sperimentazione e sonorità consolidate, tra ricerca melodica e strutture non convenzionali. Su tutto campeggia la figura totalizzante dell’autore che cura ogni dettaglio, dalla copertina alle immagini e illustrazioni interne.

Proprio la cover, sgranata e virata verso una mai abbastanza abusata tinta seppia, comunica quello che è il mood dominante, ossia la malinconia mista all’indolenza. L’iniziale The Trouble With Being Born, tra sintetizzatori e tastiere elettroniche soft, con il suo lento e pulsante fluire prefigura uno dei temi principali del disco: lo spezzarsi del cordone ombelicale come atto di venuta al mondo e, per estensione, l’evolversi dell’essere umano rompendo i ponti col proprio passato.

Più avanti Sarah Sings pur non avendo il carattere filmico della precedente, ne mantiene la tristezza strumentale unita ad un’attitudine lo-fi decisamente voluta. Bastano due minuti scarsi per trasmettere atmosfera di casa, di registrazioni casalinghe in pieno comfort, di vita sullo sfondo, di suoni naturali umani ed animali (sul finale si sente probabilmente il famoso cane Enzo), come una sorta di breve inno molto intimo alla rarefazione ed alla bassa fedeltà.

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Non che manchino momenti decisamente più solari e vitali, per carità. Lady Day Redux è un ottimo brano a metà tra Bowie e Morrissey, in cui si riuniscono i rispettivi decenni in una rumorosa essenzialità glammy e dai bassi molto carichi. In parallelo si muove la successiva Drawn And Quartered, anch’essa uno degli apici del disco, mid-tempo costruito su un ossessivo riff accompagnato da una drum machine che definire ambient non è poi così azzardato. Le due canzoni funzionerebbero già prese singolarmente ma una di seguito all’altra danno la misura dell’eclettismo compositivo raggiunto dal chitarrista.

Dove però il talento autoriale raggiunge la sua massima espressione è nella title-track posta in chiusura. Sia dal punto di vista dei testi (“All those fierce friends in beautiful overcoats covering up careless skin”“What’s left to hold onto, other than a handful of broken rope?”) sia da quello della struttura musicale, Vassalotti riesce ad esprimere in modo esemplare la commistione fra trionfo e sconfitta così tipica dell’indolenza new wave e che è colonna portante anche della musica dei Merchandise. Insomma, l’evoluzione melodica rispetto all’esordio si sente tutta ma, attenzione, c’è anche altro.

In particolare c’è che David Vassalotti è uno che legge, e molto. Dunque non ci stupiamo se in Ines De Castro si rifà alla storia portoghese del XIV secolo per esprimere il suo male di vivere attraverso la tragedia della nobildonna galiziana prima amante poi sposa di Pietro I del Portogallo. Lo fa con una ballad delicata e meditativa, in cui la drum machine questa volta è orientata al proto-pop, palesando inoltre un certo amore per la cultura mediterranea, ma non solo.

Spostandoci ad oriente, infatti, Zahir veste di una specie di drone psych-rock il concetto tutto arabo che rimanda alla persistenza di certi pensieri ed emozioni, diversi livelli emotivi di sofferenza che mutano in stratificazioni chitarristiche e virtuosismi a volte frenetici ma necessari a Dave per mostrare tutto il suo talento anche come musicista e non solo come compositore.

Broken Rope è un album che, prevedibilmente, va ascoltato più volte per essere apprezzato in pieno, soprattutto nella seconda metà, quella più sperimentale e di ricerca. Al di là della trascurabileThe Dogs – caotico e rumoroso rigetto punk-noise dei tempi che furono – è la coppia formata daMaly Kitezh Bolshoy Kitezh a far luce sulle molteplici risorse del ventottenne chitarrista.

La prima, che segue Zahir e quindi parte un po’ spagnola un po’ mediorientale, si reincarna presto in una citazione assai poco velata del tema straussiano di Also Sprach Zarathustra poi a sua volta mutato velocemente in un martellante industrial alleggerito da cori quasi liturgici, finendo per lasciare un’idea di stampo progressive davvero notevole. La seconda – la più lunga con i suoi 8 minuti e rotti – ne è la naturale prosecuzione pur ingigantendone le caratteristiche. È ancora più epica, ancora più industrial pur abbondando di suoni ambientali. Una suite in piena regola in cui torna la voce narrante per raccontare della mitologica città russa di Kitezh sospesa tra sogno e realtà....continua su Vinylistics

 
 
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