Animal Collective – Painting With

by MonkeyBoy (Vinylistics)

11 Marzo 2016

Il Dadaismo compie cento anni. Quale modo migliore di festeggiarlo se non con un nuovo album degli Animal Collective dopo quasi quattro anni di assenza dalle scene? A te là in fondo che stai facendo la fazza come a chiedere “che c’entra la band di Baltimora con il movimento che ha rivoluzionato le arti e il nostro modo di percepirle?” dico che un po’ (ma solo un po’) ti sei risposto da solo. Fatte le debite proporzioni, anche il Collettivo – soprattutto nel quinquennio 2004-2009 – ha portato un’enorme ventata di aria nuova nell’indie che mischia neo-psichedelia, pop ed elettronica. Poi c’è stato quel mezzo passo indietro di Centipede Hz e ora eccoci qui con Painting With, ovvero l’album del ritorno a casa.

Il decimo disco degli AnCo vede riunito il magico trio di Merryweather Post PavilionPanda Bear(vero nome Noah Lennox), Avey Tare (David Portner) e Geologist (Brian Weitz) [nota: Deakin (Josh Dibb) si prende una pausa per dedicarsi ai suoi progetti da solista]. I tre, dopo l’estenuante tour del 2012, sono stressatissimi e decidono di dedicarsi alle loro cose. A maggio dello scorso anno, però, cominciano a scrivere nuovo materiale; finiscono a luglio e poi vanno a chiudersi agli EastWest di Hollywood, in particolare nel celeberrimo Studio 3, quello dove Brian Wilson compose Pet Soundsed in cui registrò anche Marvin Gaye.

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Per aumentare la dose di ispirazione si fanno raggiungere da John Cale e dal sassofonista Colin Stetson, chiedono all’artista e musicista Brian DeGraw di disegnare ben tre versioni differenti della cover (una per ogni componente) e insomma sparano alto, parlando di brani ispirati ed incentrati su Cubismo, Dadaismo e il modo distorto col quale gli artisti di quelle correnti guardavano il mondo. Le aspettative sono ovviamente enormi ed il primo ottimo singolo FloriDada, evocativo già dal titolo, non fa che nutrirle a sua volta. Al di là del minuscolo sample di Wipe Out, la sensazione è quella di essere tornati alle cose che gli Animal Collective sanno fare bene – ritmi sostenuti, voci e controvoci che si inseguono per tutto il tempo, allegra frenesia – con in più un certo gusto tribal/pop che dà ulteriore colore ad un brano ballabile sì ma dai temi agrodolci (odio, negatività, tendenze separatiste).

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A ben vedere quella stessa irrequietezza è presente anche altrove, a partire da The Burglars – la più indebitata coi Beach Boys o con l’idea che abbiamo di loro – fino alla dance (?) non indimenticabile di Natural Selection, passando per l’elettronica invadente ma efficace di Summing The Wretch e per le percussioni incessanti e le voci robotiche di Vertical. In questi episodi il tutto è rafforzato dall’assenza di pause, dall’idea che il tempo debba essere sempre riempito, in una sorta di ricerca costante di ottimale cacofonia. Il che, ci tengo a dirlo, non è assolutamente un male in sé soprattutto quando parliamo di chi ne ha fatto un marchio distintivo e quasi sempre vincente ma dopo quindici anni di carriera risulta un po’ stancante e al di là di FloriDada nessuno dei brani sopracitati verrà ricordato come un successo compiuto.

In fase di scrittura gli AnCo avevano le idee piuttosto chiare. Hanno fatto ricorso all’idea di preistoria, dei disegni nelle caverne e dei dinosauri, per spiegare il rifiuto di lente jam intellettualmente sofisticate in favore di canzoni maggiormente ispirate dai piaceri elementari, un dichiarato ritorno alle origini aiutato dal fatto che tutto è più concentrato, dunque tutto risulta più Pop – anche più di Merryweather, all’epoca già etichettato come ‘il più pop’. L’hanno definito il loro LP alla Ramones ed in effetti per le loro abitudini qui i brani sono piuttosto brevi (nessuno supera i 4 minuti), sono stati eliminati riverberi e passaggi musicali prolissi nel nome del minimalismo.

Ne beneficia di certo un buonissimo pezzo sul femminismo come Golden Gal (forse il seguito ideale di My Girls) ed in generale tutti quelli che si prendono il loro tempo per arrivare. Hocus Pocusinfarcita di elettronica e synth acquosi fin dall’inizio ed impreziosita da un drone di John Cale, vuole essere un inno contro il grigiore e la monotonia (“Wander from the cynical, take a look at this atypical”); Lying In The Grass, una delle migliori in assoluto, fa della lentezza e dell’essere meditativa la propria forza ed oltre al magnifico contributo del sax di Stetson ha un ribollire poliritmico sottotraccia costante, che cresce lento per poi farsi incalzante nel finale senza risolversi del tutto.

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Consci del dover riconquistare una certa accessibilità – anche da parte dei fan della prima ora – gli Animal Collective di Painting With sono abbastanza attenti a ricercare la melodia non dico orecchiabile, ma che per lo meno rimanga quel tanto da farsi ricordare. Già detto di Golden Gal, un altro pezzo di grande resa melodica è l’equilibratissima On Delay, con un grande groove arricchito da un trionfo di sintetizzatori modulari (forse un po’ troppo MGMT) e percussioni prese in prestito dalla collezione di Emil Richards; le cose vanno un po’ meno bene con Bagels In Kiev, un specie di elettro-chill la cui dissonanza a questo giro non paga i giusti dividendi che ci si aspetterebbe, al di là del contesto a metà tra geopolitico e personale, in cui Avey Tare racconta della sua infanzia in Ucraina. Quest’ultimo momento in particolare è indicativo di un album che non riesce a mantenere una qualità costantemente elevata ma che si perde un po’ tra alti e bassi che, diciamolo, sarebbero perdonabili per molti ma non proprio per tutti, soprattutto per chi butta sul tavolo premesse talmente grandi e velleitarie da far impallidire anche Bono....continua su Vinylistics

 
 
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