Sunflower Bean – Human Ceremony

by MonkeyBoy (Vinylistics)

25 Febbraio 2016

Ciclicamente si ripropone un’annosa questione sull’hype che accompagna gli artisti emergenti: crederci o no? A seguire si formano tipicamente due opposte fazioni, quelli che ‘sì è la cosa più grossa dai tempi del Big Bang’ e quelli che ‘no dai che fastidio è tutta fuffa’. Sui newyorchesi Sunflower Bean si è creato un consenso pressoché unanime che mi ha molto incuriosito, perciò quando è uscito il loro debutto Human Ceremony ero ansioso di capire cosa ci vedessero tutti di così interessante.

La prima cosa che salta agli occhi è che i tre sono sotto i ventun anni. Il nucleo originario è formato da Nick Kivlen (voce, chitarra) e Jacob Faber (batteria) entrambi di Long Island. Il primo cresce ossessionato da Metallica e Minor Threat salvo poi scoprire i Beach Fossils; il secondo si forma come sassofonista jazz ed in seguito si dedica alla batteria suonando Nirvana e Foo Fighters. Dopo qualche tempo da Manhattan li raggiunge Julia Cumming – la più giovane del trio – che ha studiato canto e arte, amando nel frattempo il glam dei 70’s e Brian Wilson.

untitled-article-1452013244

Anche a guardarli sono dei regaz particolari. Kivlen sembra appena uscito dalla copertina di Bringing It All Back Home di Dylan e per ora sbarca il lunario lavorando in un cinema; Cumming sembra una piccola Grimes ed è dotata di quell’androginia oggi così mainstream che le ha permesso di diventare modella per Yves Saint Laurent a tempo perso. Su Faber e la sua fazza lascio a voi cercare la similitudine che più vi diverte, io voto per questa.

La cosa tenera che piacerebbe molto a mia madre è che devono aspettare il diploma, nel 2013, per formare la band. Passano l’anno successivo a farsi il culo a suonare in tutti i club di New York per crearsi un nome, mentre all’inizio del 2015 pubblicano il loro primo EP Show Me Your Seven Secrets. La strategia paga perché un po’ tutti si accorgono di loro e la Fat Possum li mette sotto contratto per pubblicare un album scritto per un anno e mezzo nello scantinato di Faber a Long Island. Registrato in sette giorni in uno studio di Brooklyn con la produzione di Matt Molnar (Friends) e la collaborazione di Jarvis Taveniere (Woods), Human Ceremony deve il suo titolo all’idea che in un futuro lontano una razza aliena possa usare il suddetto come sottotitolo di foto che ritraggono i terrestri nella loro vita di tutti i giorni. Alieni, tipo quelli dei Simpson. Ah, i ragazzini.

In effetti un’analisi poco più che superficiale non può prescindere dal considerare l’età della band come fattore determinante della presenza di alcune tematiche fondamentali post-adolescenziali. L’impazienza giovanile, ad esempio, fa capolino nel garage di Come On sia a livello di frenesia musicale sia nei testi, che vanno da “I’m on the edge of my seat, I know I’m going too fast” a “This is my chance to be, I know that I need go faster”, sicuramente didascalici ma perlomeno spontanei. Più avanti, precisamente in I Was Home, è la volta dell’antico conflitto tra indolenza e mondanità, all’interno di un gioco lui/lei di chiamata e risposta tra Cumming e Kivlen che ben regge la struttura up & down di un brano carico di riverberi e delay, dove per una volta è il basso a prendersi la scena. Infine, tocca al dream-pop(py) di I Want You To Give Me Enough Time (scritta da Kivlen a 17 anni!) essere quella dalle atmosfere più malinconiche e trasognanti, in pieno stile Beach House.

1401x788-R1253_FOB_Sunflower_Bean_A

Una prima spia di ciò che può aver colpito così a fondo la stampa specializzata americana sta nel fatto che ci troviamo di fronte ad un disco luminoso, cristallino, che si muove tra generi diversi (psych-pop/rock, dream-pop, indie) quasi sempre con grande abilità e sapienza, in cui i riferimenti ancorché abbastanza facili da riconoscere sono declinati in maniera assolutamente personale. Nellatitle-track che apre l’album il giro di chitarra un po’ dreamy e la parte vocale di Kivlen ricordano non poco i Pink Floyd (o i primissimi Radiohead di You, fate voi) ma l’apporto di Cumming è determinante per allontanarla da mera citazione e farne uno se non il momento migliore di tutti. Le liriche, poi, portano in dote quel grado di naïveté che giustamente ci stavamo chiedendo quando sarebbe emerso (“In your right hand is the magic potion, you can drink the elixir now, don’t forget the notion”).

Similmente si comportano il jangle di 2013 e la sua controparte upbeat Esasier Said. La prima ha un grande giro di basso imitato poi dalla chitarra, ok, ma sono le tastiere new wave ad inacidirla e farne qualcosa a sé. La seconda, altro momento da ricordare, è un pop sostenuto – cantato quasi tutto in falsetto da Cumming – che ha qualcosa di garage che la rende dissonante ed originale al punto da dimenticarsi di Cure e Blondie che ci erano venuti in mente all’inizio. Un po’ meno bene riesce il giochino al garage psichedelico su di giri di This Kind Of Feeling mentre torna a funzionare nella jam psych della conclusiva Space Exploration Disaster, dove tra citazioni di Bolan e strutture heavy la differenza tra ingenuità citazionista ed abilità consapevole si fa quanto mai sfocata.

Sunflower-Bean-Ruby-June-General-2-HIGH-RES-640x385

A proposito, parrebbe strano ma i Sunflower Bean per un breve periodo dopo l’arrivo di Julia Cumming sono stati una band doom-metal. Ora se ciò si percepisce vagamente nell’EP del 2015 qui – rispetto a quel lavoro ed ai live – hanno abbandonato l’aspetto più pesante della loro musica e si trovano anche episodi più rilassati e dolci. L’ottima Creation Myth racchiude in sé entrambe le anime del trio; per 4/5 imperniata su un arpeggio soft e ritmiche soffuse, ad un certo punto scoppia in un impensabile momento Black Sabbath a dire il vero piuttosto stridente col resto ma che prima di rientrare nei ranghi del pop più educato ci ricorda da dove viene e qual è stata la storia del gruppo ora di base a Brooklyn....continua su Vinylistics

 
 
loading... loading...