Il paradosso dell'indipendenza culturale

Appunti di Marco Baravalle dal seminario I Fiori di Gutenberg

9 Ottobre 2015

Si è svolto a Roma, lo scorso 3 ottobre, un appuntamento che ha visto la partecipazione di molti protagonisti e attori del mondo della produzione culturale cosiddetta “indipendente”. Promosso da Doc(k)s il seminario si proponeva di “dare corpo e significato al concetto di indipendenza nell’ambito editoriale” e quindi poneva delle domande attorno a questa parola, allo scopo di definirne meglio un significato comune. “Cos’è indipendente? Cosa vuol dire essere o agire da indipendenti?” sono domande che possono immediatamente superare il confine del mercato dell’editoria e investire quello della produzione culturale e artistica tout-court.

Di seguito vi proponiamo degli appunti  dall’intervento di Marco Baravalle, S.a.L.E. Docks, all’interno del seminario 


Mi pare che l'indipendenza culturale, oggi, sia un oggetto paradossale e forse la situazione dell'editoria, con i suoi oligopoli, rappresenta un'eccezione, un settore in cui il confine tra dipendenza e indipendenza si manifesta chiaramente ed è riaffermato attraverso dispositivi particolarmente brutali e violenti. Se allarghiamo lo sguardo all'ambito più generale della produzione culturale, se ci riferiamo al modo neoliberale di valorizzazione dell'arte, potremmo provocatoriamente affermare che l'indipendenza è dappertutto e che essa non è alternativa, ma al contrario consustanziale al suddetto modo di produzione, non solo perché le industrie culturali e creative mobilitano continuamente differenziali di libertà, immaginari conflittuali, eterodossie, ma perché la condizione primaria dell'indipendenza, per un operatore culturale, è la possibilità della produzione (ovvero della creazione). 

Poco importano, se guardiamo alla materialità del nostro tempo, la precarietà, la condizione di working poors, l'asservimento macchinico, etc.

Gli operatori culturali “applicano”, condividono, raccolgono fondi, partecipano a bandi, si fanno finanziare dalla folla, vincono dottorati, fondano start-up, imprenditorializzano se stessi, si finanziano attraverso lavori di tutti i tipi e tutto ciò non basta a scuotere la cornice neoliberale. 

Il mondo della produzione culturale è  pieno di storie di indipendenza (che sono storie di creazione/produzione). 

Indipendenza non è dunque sinonimo di autonomia dall'apparato, perché essa convive con l'individualismo proprietario, con il cinismo, con la competizione, con le retoriche dell'impresa e del management. E' una matassa che va sbrogliata, è una forma di vita che ha prodotto soggettivazione (cioè adesione/assoggettamento), ma che produce anche frizioni. Ed è dall'interno di queste frizioni che dovrebbe emergere quella che potremmo definire un'indipendenza costituente che unisce sperimentazione di modi di produzione e produzione di conflitto. 

Credo sia difficile pensare ad un'organizzazione dei lavoratori del settore culturale/creativo attraverso una loro sindacalizzazione, anche in forme aggiornate e riviste). Individuo due piani di lavoro. Il primo è il nodo dell'organizzazione della produzione secondo modelli altri rispetto alle logiche neoliberali, elemento necessario, ma non sufficiente. Il secondo è quello che dovrebbe rispondere al problema enorme della politicizzazione del lavoro vivo culturale, ovvero come fare in modo che quella composizione si faccia portatrice di istanze in merito alla fiscalità, al reddito indiretto o al welfare (ad esempio). Qui perdiamo terreno, al posto di queste istanze ci troviamo di fronte ad una prevalenza di retoriche imprenditoriali (dunque individualistiche), di pulsioni corporative piuttosto che di spinte trasversali. Oggi siamo (a volte) indipendenti, ma siamo complessivamente compatibili. 

Possiamo dare molti giudizi sull'esperienza dei teatri occupati, i movimenti sono ciclici, si gonfiano e si sgonfiano e facciamo fatica a identificare l'accumulo. In ogni caso quello era un tentativo del lavoro culturale di praticare forme di incompatibilità prima di tutto rispetto ai dispositivi di soggettivazione neoliberale.

Ho recentemente letto un saggio di un giovane ricercatore polacco, Kuba Szreder, che investiga la dimensione soggettiva di quello che definisce “Projectariat” (Progettariato), ovvero la diversificata composizione transnazionale di operatori culturali che organizza la propria produzione “a progetto”. Il saggio mi è parso in sintonia con le pratiche di S.a.L.E.-Docks, mi è parso inoltre che ne rispecchiasse potenzialità e limiti. La tesi dell'autore è quella che sia necessaria una radicalizzazione dell'opportunismo che caratterizza la composizione in questione, elemento chiave sarebbe il  passaggio dall'indipendenza all'interdipendenza. Chiariamo che siamo qui lontani dalle retoriche più scontate sullo sharing, sul networking o sulla cooperazione. Se l'interdipendenza è una suggestione utile, essa deve in ogni caso essere declinata politicamente, ovvero contro il modello neoliberale, altrimenti (concesso che il termine trovi diffusione nella spietata economia del pensiero critico) verrebbe semplicemente assorbita, con pochi effetti sulla realtà. 

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Oggi, mi pare, siamo invece in assenza di un terreno di aggregazione che presenti tali caratteristiche. Le reti attive, sebbene pongano istanze legittime e spesso critiche, non sembrano interessate alla ricerca di pratiche di incompatibilità del lavoro culturale con questo stato di cose. Certo, il pragmatismo è importante, ma in tempi come questi è anche una tentazione a cui è difficile resistere. Insisto sul punto e a costo di rinunciare del tutto ad essere sexy, affermo che abbiamo bisogno di un approccio politico alla “fabbrica della cultura”. Chiudo con un esempio in merito, si tratta solo di una suggestione. Pensiamo ad esempio a Creative Europe, programma pluriennale di finanziamento al settore culturale e media dell'Unione Europea che gestisce un portafoglio di 1,46 miliardi di €. Pensiamo ora a quanto, a livello di azione politica generale, i movimenti si pongano da anni il problema di investire la dimensione Europea; bene, Creative Europe è una fabbrica culturale pienamente europea, una fabbrica linguistica, diffusa e puntiforme che funziona esattamente per progetti. Non sarebbe allora importante, in nome dell'indipendenza culturale, produrre un serio lavoro di inchiesta all'interno di questa fabbrica culturale? Superare il mero opportunismo, cioè l'accesso ai fondi quando siamo in grado di accedervi, e pensare, invece, come sovvertire questa fabbrica? Come sottrarla alle reti del politicamente corretto, ai professionisti della progettazione europea, ai burocrati della rigenerazione, della partecipazione e della cultura?

 
 
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