Julia Holter – Have You In My Wilderness

by MonkeyBoy (Vinylistics)

2 Ottobre 2015

Ho scoperto Julia Holter decisamente tardi. Due anni fa, nemmeno per mia volontà, mi sono trovato a dover ascoltare Loud City Song ed è stato subito amore pesante. Per chi non lo sapesse, Holter è una polistrumentista diplomata in composizione al California Institute of the Arts. Ha realizzato i suoi primi due lavori in casa, con un approccio che oggi pare lontano anni luce. L’esordio di Tragedy – ispirato dall’opera tragica di Euripide – è datato 2011 mentre solo un anno dopo vede la luce Ekstasis, il cui background è costituito dalle poetiche di Virginia Woolf e Frank O’Hara. Il terzo LP, quello della consacrazione, trae invece ispirazione dalla letteratura più contemporanea, quella del romanzo francese di Colette del 1944 (e successivamente musical hollywoodiano) Gigìmetafora sulla perdita dell’innocenza, sulla crescita e sul cambiamento. Insomma roba pesa e soprattutto tre concept che nelle tematiche via via si avvicinano nel tempo ai giorni nostri.

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Non stupisce, dunque, che al quarto album in quattro anni la californiana decida che l’argomento da trattare debba riguardare se stessa. Le coordinate rimangono quelle del pop sperimentale con forti venature ambient, ma cresce il songwriting ed accanto alle muse tutelari dei primi anni – Kate Bush, Julianna Barwick e Zola Jesus – possiamo aggiungere Joanna Newsom, Cat Power e Dionne Warwick. Dopo 12 mesi di registrazioni in studio nella natìa Los Angeles con il supporto di un’orchestra di sette componenti, Have You In My Wilderness viene pubblicato per la Domino Records il 25 settembre. Torna Cole Marsden Greif-Neill (Night Jewel, The Samps, Ariel Pink) come produttore e, senza nulla togliere all’immenso talento della Holter, il suo contributo si rivela determinante per compiere un ulteriore , forse decisivo, salto di qualità.

Dopo tre lavori di arte (prima ancora che di musica) concettuale, al contrario di quello che farebbe la maggior parte dei musicisti, Julia Holter si libera delle sovrastrutture più rigide e grevi per dare vita ad un disco decisamente personale, in cui affronta temi universali come l’amore e le relazioni umane. Meno teatrale ed in parte meno barocco del precedente, Have You In My Wilderness è invece più lineare ed accessibile, verrebbe da dire semplice, anche se permane qua e là il ricorso alla metafora. Musicalmente sono da sottolineare l’onnipresenza degli archi, una voce (anche riverberata) che finalmente viene posta in primo piano – non più nascosta dietro gli strumenti – ed arrangiamenti decisamente più ricchi e curati.

 

L’indiscutibile anima pop dell’album è presente già nei primi due singoli, d’altronde chi non vorrebbe far fruttare al meglio il proprio talento? Feel You parte con un clavicembalo da chamber-pop che fa molto Barry Lyndon, ma prima che ciò possa preoccupare ricerca l’orecchiabilità per mezzo del dualismo violino/batteria e dei cori opposti ad una parte vocale in staccato nelle strofe ma ben più educata nel ritornello. Ambientata nella torrida Mexico City... contina a leggere su Vinylistics

 
 

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