Youth di Paolo Sorrentino

recensione a cura di Luigi Finotto

24 Maggio 2015

Raccontare la trama di un film e' il modo migliore per banalizzarlo, per ridurlo a una storia che sicuramente sarà stata raccontata e sviluppata mille altre volte. Ma qualcosa bisogna pur dire per dare almeno una vaga idea del soggetto, per cui togliamoci questo sassolino dalla scarpa e dopo si potrà scrivere qualcosa circa la poetica, la ricchezza e il senso di questa splendida pellicola.

Storia ambientata in un albergo svizzero: protagonisti un regista ottantenne (Harvey Keitel), ancora convinto di poter girare un film, un coetaneo direttore d'orchestra (Michael Caine), che si sente in pensione. Durante il soggiorno in una lussuosa spa svizzera, ricorderanno o cercheranno di ricordare il loro passato, giudicheranno la vita dei propri figli e osserveranno con benevolo cinismo e curiosità la routine dei tanti ospiti dell'hotel. Insomma qualcosa che nella storia del cinema è trito e ritrito,visto e trattato tante volte. Eppure lo stesso,da questo materiale, Sorrentino ne trae un'opera che per bellezza,l eggerezza e capacita' estetica e emozionale è assai difficile dimenticare.

Sorrentino sa posare uno sguardo sulle cose che, di per se, già costituisce uno stile inequivocabile, un punto di vista poetico/estetico che avvolge la vicenda, le si avvicina,la scompone, ricompone, la fa scivolare via, la riafferra più in la', la rende irriconoscibile. Nel film di Sorrentino non ce' mai linearità, c'è scostanza, non c'e' la necessità di concatenare gli eventi secondo una logica causale, egli, piuttosto,si pone come chi osserva le conseguenze del riflusso di un onda, cioè di qualcosa che ha esaurito la sua forza e che, rientrando rilascia sensazioni e percezioni delicate, grottesche, talvolta tragiche e altre comiche.

Quello di Sorrentino è una sorta di caleidoscopio o forse meglio ancora, un film mosaico, costituito da “tessere”, che da una parte ci guidano ma dall'altra, soprattutto, richiedono a chi guarda lo sforzo di metterci del proprio, cioè di unire le tessere e ricavarne un senso o più semplicemente un piacere innanzitutto estetico: lo spettatore è coinvolto in un immaginario montaggio, dettato dalla sua sensibilità e dal suo gusto. Queste tessere, però, sono sparse in modo contraddittorio, ambiguo, persino ingannevole. Ordinare il caos creativo è, appunto, compito dello spettatore o fruitore del film. Il regista si sottrae da questa funzione e si limita a disseminare il film di tracce ,intuizioni, momenti, icone, caricature, ossessioni. Il film e' un incredibile sequela di “scene madri” in cui si alternano dialoghi “scolpiti nella pietra” e sconcertanti banalità ,ciò che rimane è la forza incredibile ed evocativa delle immagini, delle inquadrature,delle soluzioni estetiche e iperboliche. Sorrentino, come fosse un pittore impressionista, colpisce innanzitutto la “retina “dello spettatore e il resto ne è una conseguenza. I personaggi fondamentali sono due (il regista e il direttore d'orchestra) e incarnano le tensioni e ossessioni che aleggiano sul film, ossia quelle sul tempo che passa,sul senso dell'arte,sul valore dei ricordi e dell'amicizia:i personaggi di seconda linea che in apparenza sono solo oggetto della curiosità e attenzione dei due e,solo in quanto tali hanno una funzione, nello sviluppo dell'opera assurgono, invece, a ruoli fondamentali e decisivi, facendone cosi' un film corale e non una banale vicenda di due ottuagenari in crisi senile esistenziale.

La carrellata di personaggi che popolano l'albergo svizzero è certamente elemento caratterizzante: conferiscono alla pellicola la leggerezza piacevole della commedia, cospargendola qua e la di pennellate geniali e indimenticabili. Un attore californiano condannato ad essere per sempre un personaggio interpretato che, però, detesta, ma di cui tutti si ricordano (secondo me il personaggio meno riuscito del film); un Maradona memorabile, obeso, distrutto nel fisico, prostrato nello spirito ma ancora capace di sentirsi un mancino e di scorgere nel suo “sinistro” non solo tracce di una gloria passata ma anche la voglia di futuro e il senso di una regalità e di una distinzione che sono l'ultimo argine contro una decadenza fisica impietosa (la scena nel campo da tennis, di lui solo che palleggia con la pallina da tennis,scagliandola in cielo col sinistro e accogliendola di ritorno dal cielo col medesimo sinistro è un vero capolavoro) ; una Miss Universo disarmante per bellezza e per intelligenza semplice e solida; uno scalatore malinconico e solitario che sfida la paura e l'ansia esattamente procurandosi paura e ansia, cosi come un metaforico antibiotico di se stesso; un monaco buddista che cerca spazio per la contemplazione, nella quintessenza del vacuo e edonista piacere occidentale,cioè una SPA svizzera, come in una specie di assurda e divertente legge del contrappasso ; una ragazzina massaggiatrice che balla imitando divette televisive ma lo fa con una grazia assoluta ,quanto insospettabile e si rivela di una profondità semplice, di una saggezza tanto antica quanto spontanea; un Hitler, zoppicante ,indolente e invecchiato che irrompe nell'albergo tra l'incredulo sgomento degli altri (come fosse un statua di Cattelan) e che, alla fine si rivela essere solo un attore demotivato,ormai incapace e disinteressato a interpretare l'orrore che e' null'altro che banale e inspiegabile e voglioso di dare corpo ai desideri che, per quanto a volte possano essere viziosi,malati o incerti sono il motore delle azioni,di tutte. Situazioni che calano, spesso, improvvisamente nel film, delineando una specie di sinfonia jazz,dove motivi diversi e assoli improvvisi si intersecano e si inseguono seguendo una trama misteriosa e irregolare. Fra le scene che,in qualche modo,sono rimaste impresse,aggiungerei quella del regista (Harvey Keitel) che in una immersione onirica chiaramente felliniana, scorge in una collina tutte le donne protagoniste dei suoi film, coinvolte in un immaginifico e toccante concerto polifonico di voci e scampoli di battute:un saluto dell'arte alla vita che sfuma,forse.

Una menzione merita la musica. Sorrentino sovverte la logica classica della colonna sonora, cioè quella di puntellare il film, accompagnarlo e dettarne i tempi e le emozioni. Qui,invece,l a musica fa vere e proprie incursioni ,si ricava un suo specifico spazio e ruolo ,non veste il film ma sta dentro. Il regista non disdegna ne il pezzo rock, piuttosto che quello pop commerciale, passando se e' il caso per cori degni dei carmina burana. Il salto di registro è continuo, la sfida a ricercare il senso e il piacere passa anche attraverso le musiche.

Per chi ama il cinema ed un po è cinefilo sono diversi i richiami ad Altman, Fellini e in alcuni momenti,in alcuni interni anche a Kubrik.

Da vedere....

 
 

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