Mumford & Sons – Wilder Mind

by Aria (Vinylistics)

11 Maggio 2015

Se dopo l’uscita del singolo Believe, la prima cosa che avete pensato è stata “Ommmioddio mi si sono coldplayzzati i Mumford” potete tirare un sospiro di sollievo perché dopo aver ascoltato il disco intero si capisce che non è affatto di questo che si tratta.. ma, ahimè, se siete sempre stati dei loro fan vi accorgerete subito che il discorso della coldplayzzazione, a confronto, non era poi cosi malvagio.

Mi spiego meglio.

Nel caso di Chris Martin & Co, indipendentemente da quanto-quando-come sia variato il loro sound, uscite di testa discutibili (mooolto discutibili) e quant’altro, c’è sempre stato un dato di fatto imprescindibile a fare da colonna portante a qualsiasi discorso si volesse fare su di loro: i Coldplay nel loro genere sono sempre stati un nome di peso e anche quando si sono buttati in scelte molto destabilizzanti per chi li ha sempre amati, non hanno mai snaturato del tutto la loro identità e anche “nella cattiva sorte” hanno saputo sparare qualche colpo non propriamente da dimenticare. Per i Mumford non si può dire la stessa cosa.

In realtà però nel caso dei Mumford non può essere fatto lo stesso discorso anche per altri motivi che, per non risultare troppo di parte, ora è giusto sottolineare.

Prima di tutto perché pensare a loro con un sound come quello dei Coldplay, che mai e poi mai ci si sarebbe aspettato da loro, fa davvero venire i brividi e già solo ripensare al termine “coldplayzzazione” mi fa venire voglia di piangere (ok, non era ancora il momento di “non risultare troppo di parte” ma ora arriva, giuro!). E poi perché sarebbe ingiusto associarli ad un’unica band quando gli spunti per questo disco sono stati presi da un certo tipo di sound e non da un certo tipo di nome che lo suona. Così dopo aver dedicato qualche riga a dare sfogo a un po’ di rabbia data dal fatto che all’inizio è stata davvero dura provare ad accettare questo totale cambio di rotta , proviamo a fare le persone serie e obiettive e soprattutto, cerchiamo di capire se questa svolta ci piace o non ci piace.

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Appurato il fatto che le sonorità folk, che da sempre li hanno contraddistinti e resi una band di riferimento agli occhi di un certo tipo di pubblico, sono state abbandonate, è doveroso uscire da quella sfera di odio nei confronti del cambiamento e mettersi nell’ottica che l’evoluzione, le trasformazioni, non sempre sono necessariamente un male.

Allora si potrebbe fare finta di trovarsi ad ascoltare l’album di debutto di una band mai sentita prima. Ma anche questo, secondo voi sarebbe giusto? No, certo che no. Sarebbe troppo facile.. o forse lo sarebbe troppo poco. Forse questo disco nel suo totale distacco da tutto ciò che è stato precedentemente, ha bisogno proprio di un confronto col passato per essere capito appieno.

Infatti, se Believe come primo singolo mi aveva portata a pensare al peggio, con l’uscita di The WolfSnake Eyes la paura si era leggermente placata dando spazio alla curiosità di vedere come se la sarebbero cavata in queste nuove vesti. Non a caso, dato che i due pezzi sono tra i migliori momenti del disco. Disco che rispetto ai lavori precedenti cambia, oltre al modo di suonare, anche quello della scrittura che diventa molto più standard e popolare, passando decisamente in secondo piano. E’ il sound rockeggiante a primeggiare, a cambiare le atmosfere, richiamando la notte e tutto ciò che succede nella testa di chi è sveglio e guarda la città dormire. Con Aaron Dessner (già a lavoro con iThe National) e la produzione affidata a James Ford (Arctic Monkeys) è difficile sbagliare il tiro e di certo si è scampato il pericolo di ritrovarsi in un labirinto di pareti tutte uguali, come un po’ ha rischiato di essere il precedente Babel con episodi non sempre brillantissimi. L’inizio con Tompkins Square Park dà fin da subito il benvenuto alle chitarre elettriche che sostituiscono definitivamente quelle acustiche, ricordando i migliori Kings Of Leon. Chiude questo quartetto di canzoni apprezzabili Just Smoke che è l’unico pezzo dell’intero album a mantenere un contatto con tutto quello che la band è stata fino a questo momento. Ma a parte questo episodio, il resto del disco si attiene alle previsioni di tutti noi, abbandonando il banjo, le atmosfere raccolte e i testi più intimi. Ripeto, poteva anche non essere un male tutto ciò e in effetti non si può dire di essere davanti a un pessimo lavoro. Ma tutto questo suonare bene sembra più opera di chi ha confezionato e prodotto il disco con loro che della band stessa. Purtroppo è una sensazione inevitabile sapendo quello che sono stati fino ad ora e constatando che anche nei migliori momenti dell’album non si vede neanche lontanamente un briciolo della loro essenza, un briciolo di cuore, se così si può dire. Per non parlare di pezzi come Wilder MindCold Arms e Monster che non seguono nessuna direzione e si dimostrano abbastanza inconsistenti, come anche il finale di questo disco che si chiude con Only Love e Hot Gates, due ballate non memorabilissime.

Se davvero questo cambio di rotta è avvenuto naturalmente, come dicono loro stessi, allora è giusto che seguano questa strada e che provino a mostrarci chi sono anche così. Ma, ad oggi, la realtà dei fatti non si può comunque ignorare: se fino a questo momento sono stati, nello scenario della musica folk e country, i MUMFORD & SONS, in queste nuove vesti sono soltanto un’altra delle tante band che suonano e nulla più.

 
 

Vinylistics

 
 
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