Blur – The Magic Whip

by MonkeyBoy (Vinylistics)

4 Maggio 2015

"What are we going to do now it’s all been said? No new ideas in the house and every book has been read”. Queste parole di un ispiratissimo Bono all’apice della carriera degli U2 rendono perfettamente l’idea di come mi sono approcciato alla recensione del nuovo album dei Blur, The Magic Whip. Era il 1991 e la band di Damon Albarn, Graham Coxon, Alex Jones e Dave Rowntree aveva appena pubblicato Leisure, primo capitolo di una clamorosa carriera. Da lì in poi furono il Britpop, la famigerata guerra con gli Oasis a colpi di vaffanculo e speriamo che tu muoia di aids – per chi vi scrive alla fine vinta e non di poco sui Gallaghers brothers – milioni di dischi venduti, fiumi di parole scritte, un ultimo disco (Think Tank del 2003) praticamente senza Coxon ed una pausa durata dodici fottuti anni. Per i nostri tempi, un’eternità. Nel momento in cui è stato chiaro che i Blur sarebbero tornati, il fomento è stato planetario ed ormai tutti ma proprio tutti hanno detto o stanno dicendo la loro su questo ottavo lavoro. Avrei voluto scrivere qualcosa di originale, magari dare un voto inaspettato, trovare un gancio che nessuno aveva ancora scovato e cose così, perché mi piace fare quello diverso. Invece nulla di tutto ciò è davvero possibile, alla fine mi tocca ammettere di essere un blogger medio che scrive un pezzo medio su un grande album. Come hanno fatto tutti gli altri, più o meno. Ma che sia colpa nostra o della band lo scopriremo insieme alla fine.

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La storia di come sia nato quest’album è nota e stranota, sdoganata in ogni salsa possibile fino alla noia, tuttavia essenziale per capire cosa sta dietro a questi 51 minuti. Nel maggio del 2013 la band si trova in Giappone per partecipare al Tokyo Rocks Music Festival, rassegna che poi – per motivi rimasti tuttora sconosciuti ai più – è stata annullata, lasciando i quattro bloccati ad Hong Kong per cinque giorni di fila. C’è di peggio direte voi, al limite fate un po’ di shopping tecnologico, due giri in qualche bordello di lusso e chi s’è visto s’è visto. Invece no, loro si annoiano e per distrarsi entrano negli Avon Studios con una strumentazione ridotta all’essenziale e compongono una trentina di tracce. Fin da subito non si sa se quella roba vedrà la luce o meno. Sono pezzi abbozzati, solo musiche e arrangiamenti scarni senza testi. Albarn poi ha da stare dietro ad Everyday Robots e conseguente tour promozionale, quindi la cosa pare morire lì. Circa a novembre 2014 è però Coxon (che ha la noia facile) a chiedere di poterci mettere le mani su, scegliendo come collaboratore quello Stephen Street che mancava dai tempi di Blur del 1997. Il tutto in supersegretezza, se pensate che nemmeno la figlia del chitarrista era al corrente del perché i vecchi compagni del papi bussassero continuamente alla sua porta e non per andare al pub. Da lì le cose si fanno veloci, Coxon presenta dodici (tredici con la bonus track Y’All Doomed solo per il mercato giappico) canzoni quasi finite ad Albarn per vedere se vanno bene per farci uscire un LP; per tutta risposta nel gennaio di quest’anno lo stesso frontman di ritorno dal tour australiano si ferma nuovamente ad Hong Kong per trovare l’ispirazione necessaria a metter giù delle liriche all’altezza della sua fama. Il disco viene masterizzato a febbraio ed è pronto sulle nostre tavole a fine aprile.

Io me la immagino così. Ci deve essere stato un momento in cui i Blur hanno pensato che dodici anni fossero effettivamente troppi per pubblicare qualcosa che non fosse totalmente straniante per i vecchi fan. Ok che Coxon – col suo progetto solista – e soprattutto Albarn – con Gorillaz, The Good, the Bad & the Queen e da solo – non sono mai spariti veramente dalle scene, ma i tempi sono cambiati e c’è gente che vorrebbe sempre un’altra Country House. Così si spiega la partenza con Lonesome Street, un caotico pastiche autoreferenziale in classico stile Blur che ricorda molto sia Modern Life is Rubbish sia Parklife (specialmente nel riferimento al bus 514 per East Grinstead) tra il cantato biascicato ed amichevole di Albarn e la chitarra nevrotica di Coxon, con il solito contributo della sezione ritmica e un po’ di elettronica non invadente, comunque un bel momento. Più avanti nel disco si ripeterà il giochino sia nella rumorosa I Broadcast sia in Ong Ong, vero e proprio tributo al fedelissimo seguito della band, messa verso il fondo per dare un’ultima botta compiacente (e anticipare quello che sarà il momento top del live con quel “La la la la I wanna be with you”), dove tornano i richiami all’era di The Great Escape con un pianoforte che compare all’improvviso per dare un po’ di carattere al brano. Dove però il debito viene pagato alla perfezione ed anzi si va parecchio oltre è nel primo singolo Go Out, quasi cinque minuti trascinanti e gommosi tra vecchio e nuovo, dove ogni componente dà il meglio di sé (la batteria, più lenta, ricorda Song 2 mentre basso e chitarra sono vicini a Music Is My Radar) e si comincia ad intravedere qualcosa della ritrovata intesa tra i due leader del gruppo. È una di quelle canzoni che ti fanno capire perché ami i Blur, perché un momento cazzeggiante e un po’ scemo anche nei testi sia così affascinante ed anthemico come lo fu, ad esempio, Girls & Boys.

 

Se è vero che se non fosse stato per Coxon questo LP non avrebbe mai visto la luce (pare si sia sbattuto molto in modo da ‘chiedere scusa’ per ciò che successe durante le session di Think Tank), è altrettanto evidente come siano numerosi i momenti Albarn-dipendenti, e non sarebbe potuto essere altrimenti. New World Towers vede il nostro Damon al piano in una song (guidata dal basso di James) che sarebbe potuta essere nel suo esordio solista, dove ritorna un tema assai caro al songwriter, quello della dislocazione, che è anche una delle colonne portanti di questo The Magic Whip. Nell’osservare lo skyline di Hong Kong c’è qualcosa di retrofuturistico, forse quello che Coxon ha definito ‘sci-fi folk music’ perché unisce il mood tecno-spirituale dell’estremo oriente con un sound tipicamente inglese. Stesso discorso vale per la più leggera Ghost Ship, che grazie ad una ritmica reggae ed una chitarra tremolante trasmette quel gusto allo stesso tempo tropicale e malinconico (“I’m in a ghost ship drowning my heart in Hong Kong”) che non di rado si ascolta nei brani di Albarn, coi Gorillaz o da solo. Poi arriva My Terracotta Heart e realizzi quanto debba essere enorme il bagaglio artistico di un autore che riesce a mettere da parte anni di rapporti tribolati col suo amico di sempre (“We were more like brothers, but that was years ago”) per dare vita ad un brano toccante e minimale, che strappa sicuramente una lacrimuccia ai più sensibili. Un episodio di sublime e struggente bellezza, giocato su più livelli sia dal punto di vista musicale – ritmica greve da una parte, voce tastiere e chitarra dall’altra – sia dei testi – che conferiscono pathos ed intensità – dove il tema dell’amicizia e della giovinezza fa da sfondo ad un momento di abbagliante apertura (“Is something broke inside me? Because at the moment I’m lost and feeling that I don’t know if I’m loosing you again”).

 

Alla fine si capisce che la componente fondamentale, la chimica vincente dei Blur sia sempre stata quella tra Albarn e Coxon (con piccoli ma imprescindibili apporti di Rowntree e James) più che i singoli contributi che i due hanno portato alla causa. I vertici tematici e compositivi sono quelli in cui la coppia si cerca e si ritrova al meglio, come una volta, come quando erano ragazzini e si divertivano a far divertire noi. Da una parte abbiamo Thought I Was A Spaceman che rappresenta il fulcro melodico e musicale di The Magic Whip, una delle canzoni più esplorative, che si sviluppa in sei minuti di crescendo, con un inizio di synth voce e drum machine che cresce per addizione quando poi entra in scena il resto della band, a metà tra oriente (xylofono) ed occidente (elettronica), malinconica e stupenda nel ricreare un deserto in Hyde Park. Dall’altra parte si trova invece There Are Too Many Of Us, vero centro nevralgico di tutto quello che sta dietro al disco in termini di tematiche ed ispirazione, forse il meglio in assoluto. Albarn ha affermato che l’album è ‘urbano’ e abbiamo già detto come la componente Hong Kong sia fondamentale. Qui si concretizza il tutto, la claustrofobia e la dislocazione sopracitata diventano concreti e si possono quasi toccare quando, su una batteria militare e tastiere anni ’80, Albarn spegne la tv e guarda giù dalla finestra del suo hotel a Sydney durante la crisi degli ostaggi del 2014 e prova quella stessa sensazione avuta ad Hong Kong, quella spersonalizzazione dell’essere umano moderno di fronte ad una realtà sempre più difficile da sostenere.

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Da qualche parte nel mezzo di questi due poli si trova Pyongyang. A dispetto del titolo non ha a che vedere con la Corea del Nord, almeno non direttamente (“The pink light that bathed the great leaders is fading”) visto che è l’esempio più rappresentativo di lirche mai così oblique ed indirette nella carriera dei Blur. Oscura come la precedente, ha in sé un’ottima melodia esaltata da una grande prova vocale che permette ad un brano semplice ed epico allo stesso tempo di arrivare diretta allo spirito dell’ascoltatore nel tipico modo di Albarn. Quest’ultimo ha anche affermato che il titolo di The Magic Whip ha diverse sfaccettature, riferendosi sia a come chiamano un tipo di gelato in UK, sia ad un fuoco d’artificio in Cina, sia ad un sottotesto più politico (‘whip’ è un ruolo politico nel parlamento anglosassone, responsabile della disciplina di voto all’interno del partito). La differente consistenza, ampiezza e profondità dell’album è riflessa da questi tre estremi e si ritrova in parte sia in Ice Cream Man che nella conclusiva Mirrorball. La prima, a dispetto di testi all’apparenza leggeri (“Here come the ice cream man, parked at the end of the road”) e di un giro di tastiera che fa molto videogiochi anni ‘90, presenta una venatura più noir (“I was only 21 when I watched it on tv”) con possibili riferimenti ai fatti di Piazza Tienanmen del 1989. La seconda è un finale alla This Is A Low, orientale nella progressione degli accordi e negli archi ma al tempo stesso morriconiana nel tremolo di chitarra (che ricorda pure gli ultimi Arctic Monkeys) per una conclusione assai emotiva e di peso: “So cry your eyes out, hold close to me”.

Alla fine di questa lunga recensione mi sono accorto che forse non si poteva fare davvero in altro modo. Forse la sconfinata classe ed esperienza dei Blur ha fatto in modo che tornassero nell’unico modo possibile, che fossero talmente bravi da farci scrivere quello che loro volevano che scrivessimo, che ci fregassero con la storia dei 4 amici in una stanza che compongono la loro musica migliore. In realtà non sappiamo se questo sarà davvero l’ultimo album, un giorno qualcuno dice che hanno altre 15 canzoni pronte, il giorno dopo invece è di nuovo l’ultimo. In fondo chi se ne importa, godiamoci il momento. A conti fatti, The Magic Whip è un gran bell’album, pieno zeppo di idee interessanti a dire il vero non tutte sfruttate fino in fondo ma che lasciano aperta una porta bella grossa su possibili sviluppi futuri. L’ultimo pensiero che mi è venuto scrivendo questo pezzo è che forse la chiave di tutto sta nel fatto che è vero, sono tornati, ma alla fine è tornata anche quella parte di noi che se ne era andata via con loro dodici anni fa, quel pezzo di noi che guardava ancora i video su MTV e aveva il Barbour, che squadrava le loro polo Fred Perry con sospetto e che rifarebbe tutto da capo mille volte.

 
 

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    video

  • Blur - Go Out
  • Blur - Lonesome Street (Official Video)
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