Toro Y Moi: What For?

by MonkeyBoy (Vinylistics)

11 Aprile 2015

Trovarsi al posto giusto nel momento giusto con in mano le carte giuste. Detta così potrebbe sembrare la cosa più desiderabile al mondo, ma nel caso di Chazwick Bradley Bundick in arte Toro Y Moi ciò non è del tutto vero. Perché dopo aver esordito nel 2010 con Causers Of This – e di fatto essendo stato uno dei creatori del genere definito chillwave – già col sophomore Underneath The Pine dell’anno successivo si è rivolto verso un sound più psychedelic-soul per smarcarsi da una definizione troppo restrittiva per la sua indole artistica eclettica ed eterogenea. Così, mentre si dava alla disco col side-project Les Sins (il cui esordio sulla lunga distanza, Michael è uscito a novembre dello scorso anno) e racchiudeva i suoi flussi di coscienza nel progetto sperimentale Sides Of Chaz, con Anything In Return compiva la notevole impresa di fare uscire tre album in altrettanti anni, questa volta strizzando l’occhio all’r&b e alla house, sempre più lontano dal genere che lo aveva lanciato, sempre più vicino al pop.

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Per il suo quarto lavoro What For? (via Carpark Records) Toro Y Moi si lascia affiancare da Julian Lynch e Ruban Nielson (Unknown Mortal Orchestra), mentre lui stesso produce e suona quasi tutto. Come al solito molta attenzione è rivolta alla strumentazione; tra le altre cose, nel suo studio privato Bundick ha potuto utilizzare una tastiera Roland JX-3P, un sintetizzatore Moog Voyager, un pianoforte Fender Rhodes e numerosi altri synth più delicati. Tutto ciò per un disco che ancora una volta cambia il contesto di riferimento del sound di Toro Y Moi verso qualcosa che da alcuni è già stato incautamente definito ‘il disco indie-rock’ di Chaz Bundick e della sua creatura preferita. Più che altro siamo in zona indie-pop ed elettro-rock se vogliamo, con innesti consistenti di synth-pop ma anche r’n’b e soul. Di sicuro lui non è uno che ha paura di ‘fare cose’ anche quando queste si muovono al contrario di ciò che avviene comunemente. Perciò è l’elettronica che piano piano annette a sé chitarre rock e non viceversa, e saranno l’artista ed eventualmente l’ascoltatore a maturare insieme accettando o meno la scommessa.

L’inizio entusiasmante di What You Want è assai emblematico del percorso che Bundick ha scelto di seguire con questo disco. Ci sono gli elementi di sempre ma spiccano chitarre e percussioni in primo piano che accompagnano una doppia linea vocale molto Tame Impala che vira tutto verso territori psych-pop. Di tenore simile è anche Lilly che parte con atmosfere Daft Punk periodo RAM e che, se nel cantato mantiene quel gusto trippy già presente nella prima traccia, richiama poi nella texture i momenti Motown che potremmo definire più sperimentali, ed è di nuovo un gran bel colpo. La produzione è ovunque piuttosto semplice, con ben pochi rischi presi. Le armonie al solito sono tondeggianti e accattivanti e ciò rende il primo singolo Empty Nesters uno scintillante ed ottimistico brano che in altri lavori (a parte in June 2009) non avrebbe avuto senso ma che qui tra una citazione di Brian Wilson ed una di Stevie Wonder riesce a mischiare guitar pop e funky, con una discreta elettronica sullo sfondo. Ma forse il brano che meglio rappresenta il nuovo sound del mezzo filippino mezzo afroamericano è il secondo singolo Buffalo in cui un synth mutuato dai Kool And The Gang diSummer Madness attraversa una traccia leggera e primaverile nella sua solarità, che ancora una volta premia gli arrangiamenti intelligenti (e furbi) studiati per queste 10 canzoni.

Unire disco, garage rock anni ’60, power pop anni ’90, funk e mischiarli tutti insieme rischia di creare confusione se tutto ciò non è ben focalizzato e incanalato in una direzione chiara. A volte come inHalf Dome Run Baby Run il discorso funziona, soprattutto nella seconda che fa del pop-rock alla Beach Boys la sua principale ispirazione mentre in sottofondo si innestano linee di chitarre elettriche e bassi fuzzati. Altrove, invece, si ha la sensazione di brani solamente abbozzati o comunque non del tutto riusciti. È il caso della discreta The Flight o della dimenticabilissima Spell It Out, un uptempo ritmicamente funky che non affonda unicamente per il richiamo a Prince ma che dà comunque un senso di sfuocato, di poca profondità. Sono questi i momenti di What For? in cui l’operazione che Toro Y Moi cerca di compiere sul proprio sound, pur essendo encomiabile nel volersi distaccare tanto dalla malinconica e nebulosa chillwave quanto dalla disco-funk e dal retro r&b delle ultime cose, mostra le sue crepe ed i suoi limiti. Ciò va aggiunto a tutto un discorso da fare sui testi che è talmente pretestuoso da lasciare letteralmente il tempo che trova. Inutile criticare liriche che partono già in un contesto di zero pretese e altrettanta velleità. Risultano unicamente funzionali alle melodie e le qualità autoriali di Bundick vanno semai ricercate nella composizione.

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Ed è qui che si fermano i pur notevoli pregi di questo lavoro. Un album che da una parte riesce a guardare allo stesso tempo indietro (alle varie influenze che lo attraversano) ed avanti (come queste influenze sono contaminate e combinate tra loro) ma che dall’altra, per essere il disco più autoriale di Chaz Bundick come songwriter, spesso è troppo passivo, lascia poco una volta terminato l’ascolto. Forse parliamo di un problema endemico della musica di Toro Y Moi e forse questo cercare nuove soluzioni dimostra che lui stesso ha voglia di rendersi più ‘pesante’ di lasciare più traccia di sé. Le qualità non gli mancano affatto, i sei minuti finali di Yeah Right hanno forse meno groove, sicuro meno synth che in passato ma sono più classic pop e finiscono per essere catchy come tutte le sue cose, rappresentando insieme agli episodi migliori di What For? la nuova ulteriore strada da seguire. Perché se una cosa è certa è che Chaz Bundick fermo non lo sarà mai e magari cadrà e inciamperà ancora, ma solo chi non si muove non corre rischi. A volte essere stato l’uomo giusto al momento giusto è anche una maledizione.

 
 

vinylistics.altervista.org

 
 
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