Godspeed You! Black Emperor: Asunder, Sweet and Other Distress

by MonkeyBoy (Vinylistics)

7 Aprile 2015

Formatisi a Montreal ormai più di vent’anni fa dal nucleo originario comprendente Efrim Menuck (chitarra), Mike Moya (chitarra) e Mauro Pezzente (basso), i Godspeed You! Black Emperor dopo aver pubblicato All Lights Fucked on the Hairy Amp Drooling su cassetta ed in 33 copie ormai introvabili, allargano la formazione fino ad una dozzina di elementi (poi ridotti stabilmente ad 8/9) e dal 1997 (anno di F# A# ∞) al 2002 (Yanqui U.X.O. prodotto da Steve Albini) passando per quel capolavoro che è Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven del 2000 in pratica riscrivono la storia del rock strumentale ed orchestrato per un’intera generazione, creando attorno a sé un credito ed una devozione (di certo meritati) con pochi pari al mondo. Poi la pausa a scadenza indefinita, l’attenzione concentrata sui progetti paralleli – in particolare i Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra di cui fanno parte Menuck, la violinista Sophie Trudeau ed il (contro)bassista Thierry Amar – fino al clamoroso ritorno nel 2010 che culmina due anni più tardi con la pubblicazione a sorpresa di Allelujah! Don’t Bend! Ascend! disco che vince il Polaris Music Prize, tanto per farvi capire l’antifona. Se almeno la metà del materiale di quel disco era già stata scritta ad inizio ’00, Asunder, Sweet and Other Distress (rilasciato via Constellation) è stato completamente creato negli anni post reunion e chi li ha visti almeno una volta in tour tra il 2013 ed il 2014 avrà già avuto modo di apprezzare questi circa 40 minuti di qualcosa che tra i fan era chiamato Behemoth, come la creatura biblica. Annunciato e quindi atteso spasmodicamente in ogni angolo del pianeta, è stato registrato tra la North Carolina e Montreal (nello studio Hotel2Tango), prodotto da Greg Norman con la collaborazione di Harris Newman, ed accanto ai cinque nomi sopracitati fanno parte del gruppo anche David Bryant (chitarra, droni, organo), Aidan Girt (batteria) e Tim Herzog (batteria, droni) mentre nei live Karl Lemiuex si occupa della proiezioni di filmati in 16mm.

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Analogamente a quanto prodotto in tutta la loro carriera, anche qui i Godspeed danno vita ad un lavoro che è da affrontare nella sua totalità, a maggior ragione se si pensa che è la prima volta dagli esordi che riescono a far confluire tutto in un solo LP. Da un punto di vista strutturale Asunder, Sweet and Other Distress è costituito da 4 brani che si sviluppano in 3 movimenti ben distinti: un’ouverture, una parte centrale riflessiva ed un gran finale. Se il minutaggio complessivo è il più breve mai visto da queste parti, i 10 minuti dell’iniziale Peasantry or ‘Light! Inside of Light!’ sono quanto di più immediato, duro e titanico si sia ascoltato fino ad ora in un loro album. Fortemente influenzata dalla presenza di Moya alle chitarre, ha un inizio in 6/8 di batterie assai pesanti e cadenzate subito affiancate da riff e droni di chitarre che tagliano il sound a fette, per qualcosa che pare una marcia militaresca, epica e minacciosa come una parata sovietica o di qualsiasi altra dittatura della storia. Gli archi hanno funzione sia di innalzamento che di dialogo, per un continuo gioco di chiamate e risposte tra accordi maggiori e minori che viene momentaneamente interrotto da strati di distorsioni che conducono poi ad un violino ora in primo piano, a metà tra tremolio mediorientale e melodie balcaniche, con fiati bucolici da campagna inglese. Se eravamo abituati a brani dallo sviluppo lineare che vivevano per esplodere nel climax qui abbiamo un sound che definisce la propria urgenza fin da subito; un unico, mistico riff praticamente portato avanti per tutta la durata ma declinato in maniera diversa a seconda degli strumenti in scena fino ad un finale più calmo ed avvolgente che introduce la parte centrale. Si ha la sensazione di aver sperimentato qualcosa che va al di là del semplice ascolto, un’esperienza intima e totalizzante allo stesso tempo, che ha reso così unica e quasi mai ripetibile la musica dei Godspeed You! Black Emperor.

I due brani centrali Lambs’ Breath e Asunder, Sweet (rispettivamente di circa 10 e 6 minuti di lunghezza) come detto fanno in realtà parte di un unico movimento intermedio. La prima riprende i momenti di drone music di Allelujah!, è pulsante e distorta quanto basta per essere musica cosmica da spazio profondo, una melodia che avrebbe potuto ascoltare l’astronauta di 2001: Odissea Nello Spazio nel suo incontro con un’intelligenza aliena. Ritengo che nelle intenzioni dei GY!BE possa essere anche qualcosa di velatamente provocatorio, qualcosa che potrebbe uscire dai Fuck Buttons ma che fatta da loro è lontana anni luce dalle tentazioni più pop, se mai ce ne siano state e vuole dire chiaro: ehi, dopo 20 anni siamo qui che ce ne fottiamo ancora del mainstream. A sostegno di ciò la seconda traccia nasce in continuo con la prima e sostanzialmente vive come preludio per il finale. Più luminosa della precedente, rappresenta il ritorno alla luce dopo essersi immersi negli abissi più oscuri che ci si possa immaginare. Un ritorno scandito dall’aumento del volume di feedback, distorsioni e droni, che verso la metà mutano in lamenti inumani di violini ed alla fine ci lasciano sulla soglia del caos e delle confusione, in attesa che arrivi il deus ex machina a risolvere l’intreccio di una fase centrale in realtà molto ragionata e studiata, costruita con perizia e lucidità. Anche troppo.

 

 

Pensando ai momenti più imponenti e grandiosi di Asunder, Sweet and Other Distress viene in mente Wagner (fatte le debite proporzioni ovviamente), di cui ok non sono un espertissimo cultore ma che conosco quanto basta per ritrovare quei caratteri epici e messianici che sostanzialmente definiscono anche il movimento conclusivo Piss Crowns Are Trebled, se possibile ancora più gigantesca della traccia iniziale. Sorge dai droni, minacciosa e sgraziata nella sua atonalità prima che percussioni, chitarre e violini rientrino con incedere maestoso, ancora più oscuro e torbido. È un leggero compromesso tra i vecchi ed i nuovi Godspeed perché qui ci si prende ancora il proprio tempo per arrivare, ma la sensazione di fretta, di smania è quanto mai evidente e si muove tutto su un wall che pare minimale ma che nasconde un lavoro complesso di texture che sfocia in un primo climax di violini ariosi ed elevati. Poi, come se nulla fosse, si torna indietro, agli archi si affiancano fuzz di chitarre e batterie martellanti ed appare evidente un gioco tanto riuscito quanto semplice che la band fa con l’ascoltatore. Perché il finale di Piss Crowns si apre in maniera devastante su tutto lo spettro emotivo creato fino ad ora, inchioda la nostra attenzione ed ipnotizza il nostro udito fino all’ultimo secondo, dopo di che così come era arrivato se ne va, disperso in frammenti distorti che tornano al nulla da cui erano nati.

evaphoto

Fossi uno di quei coraggiosi che leggono questo articolo chiederei: ma come, fai tutto ‘sto pippoto, fai paragoni a cazzo, qualifichi con aggettivi altisonanti e poi il voto non è nemmeno l’eccellenza? Caro amico coraggioso, questo è un grande grande disco, per carità. Chi fa parte del culto dei Godspeed You! Black Emperor (difficile trovare una testata che non sia ossequiosa a priori) ha già dato dei dieci a profusione, altri invece che come il sottoscritto sono semplici fan non possono fare a meno di notare un paio di pecche che si uniscono ad una aspettativa altissima non del tutto ripagata. È evidente che il collettivo anarchico canadese abbia cambiato in parte il modo di tradurre la propria musica – c’è meno ambient, meno samples naturalistici e registrazioni ambientali che caratterizzavano i loro dischi passati – ora sono più focalizzati, meno volatili diciamo; c’è ovunque più equilibrio, e meno istintività. Il che a mio parere può essere un bene ma il risvolto della medaglia è una parte centrale autoindulgente e troppo meccanica nel voler mettere l’ascoltatore a suo agio, richiamando i ricordi migliori col minimo sforzo. Insomma, c’è del nuovo e i momenti massimi sono davvero vette irraggiungibili ma ahimè non è abbastanza per gridare al capolavoro assoluto ed a conti fatti ci si ritrova davanti lo stesso spartito di sempre con qualche variazione pur importante. Asunder, Sweet and Other Distress mostra una band che non è cambiata granché negli ultimi 13 anni (cioè dal break in poi) ma che sa fare comunque quello che fa meglio di tutti gli altri che nel tempo hanno cercato di imitarli. In ciò e nello sfidare chi è venuto dopo ed usa gli strumenti che loro stessi hanno inventato sta quel coraggio nascosto che mi fa ancora sperare in un futuro nuovamente rivoluzionario.

 
 

Link utili:

Vinylistics

 
 
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