Modest Mouse – Strangers To Ourselves

by MonkeyBoy (Vinylistics)

2 Aprile 2015

Quando si pensa ai Modest Mouse si ha come l’impressione di rivedere una scena già vista più e più volte, magari con un po’ meno sanità mentale. La band originaria di Issaquah, nello stato di Washington, esordì nel 1996 con This Is A Long Drive For Someone With Nothing To Think About, bissando l’anno successivo con The Lonesome Crowded West sempre per la label indipendente Up Records. Si crearono attorno un sostanzioso seguito e soprattutto grazie al sophomore cominciarono ad essere estremamente ben considerati dalle riviste specializzate. Poi il passo verso una major, in particolare la Epic Records tramite cui furono pubblicati The Moon & Antarctica e tutti gli album successivi fino ad arrivare a Strangers To Ourselves. La parabola qualitativa che pareva dovesse essere sempre crescente cominciò ad appiattirsi e per la critica il commento fu lo stesso: ora che si sono accasati con un’etichetta grossa (è una sussidiaria della Sony) hanno perso l’antico fervore, non hanno più lo smalto di un tempo. Tuttavia il loro We Were Dead Before The Ship Even Sank raggiunse per la prima volta la vetta delle classifiche USA e l’antica diatriba tra successo commerciale e di critica si riaccese. Era il 2007 e da allora sono passati otto anni. Otto.

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La stabilità della line up non è mai stata una prerogativa per la band di Isaac Brock (voce, chitarra), e le registrazioni di questo sesto disco iniziano non solo senza Johnny Marr (che era in We Were Dead) ma per strada si perde anche uno dei membri fondatori, il bassista Eric Judy. La storia sulla realizzazione di Strangers To Ourselves riassume abbastanza bene quello che dei Modest Mouse si vede dall’esterno, ossia un casino schizofrenico da cui alla fine qualcosa esce sempre, un po’ come la cover che ritrae il Venture Out Rv Resort di Mesa, Arizona, e che sì è un bel caos. Brock, Jeremiah Green (batteria, percussioni), Tom Peloso (chitarra, tastiere), Russell Higbee (basso), Jim Fairchild (chitarra, voce) e Lisa Molinaro (archi, basso, tastiere) entrano all’Ice Cream Party Studio di Portland (di proprietà del frontman) per poi uscirne qualche anno dopo con materiale sufficiente per un paio di LP. Ne pubblicano uno solo, quello finito, mentre il secondo è già stato annunciato per il 2016 e vedrà la collaborazione di Krist Novoselic al basso. In tutti questi anni i Mouse hanno continuato l’attività live e dato alle stampe singoli ma non si può dire che le idee fossero ben focalizzate. Lo stesso Isaac Brock ad un certo punto va ad Atlanta negli Stankonia Studios a registrare 5 brani con Big Boi degli Outkast; di tutta quella roba non si salverà nulla e nessuno dei due ne uscirà arricchito. Poi la cancellazione del tour europeo del 2013, la costruzione del nuovo studio,  l’abbandono di Judy e le session insoddisfacenti hanno fatto sì che il disco subisse ulteriori ritardi, rendendolo una sorta di piccolo Chinese Democracy. Anticipato da una manciata di singoli, co-prodotto da Brian Deck e dallo stesso Brock – con la collaborazione di Tucker Martine (Spoon) e Andrew Weiss – Strangers To Ourselves ha il delicatissimo compito di arrivare dopo ben 96 mesi di attesa e di farci capire se ne sia valsa la pena o meno.

 

Una cosa va detta subito. Non è un album facilmente assimilabile, cresce notevolmente con gli ascolti e tuttavia alla fine è difficile farsi un’idea completa su questi 57 minuti. Quello che, a seconda dei punti di vista, frega è l’inizio assolutamente di livello. La title-track è di grande atmosfera, una specie di ballata con cadenza valzer che si fa molto aspettare ma che tra violoncello e percussioni sabbiose è un’ottima introduzione alla ben più sostenuta Lampshades On Fire, primo singolo estratto e forte critica ai comportamenti umani ed alla natura distruttiva dell’uomo moderno. “Pack up again, head to the next place, when we’ll make the same mistakes” canta Brock su una sua tipica doppia traccia vocale. Qui a dispetto del tenore funk del pezzo ci si sente a casa tra piano, ‘bah-bah-bah’ vari e liriche critiche sulla modernità e sugli sprechi, che lo sappiamo che una volta le cose si facevano meglio. Se da una parte la successiva Shit In Your Cut non fa che confermare le classiche sonorità della band fatte di melodie, riff accattivanti e arrangiamenti psichotici, è quando arriva il momento di osare che si mostrano le prime crepe. Pistol (A.Cunanan, Miami, Fl. 1996) più che una crepa è una vera e propria voragine, forse la cosa peggiore mai pubblicata dai Modest Mouse in vent’anni. A parte che non si capisce il nesso tra l’assassino di Versace e la canzone in sé, non so se sia più inquietante il fatto che la prima cosa che ricordi ascoltandola sia Gwen Stefani oppure la totale assenza di un costrutto non dico studiato ma per lo meno logico. In una parola, terribile.

Il perno del discorso su questo album è tutto qui. I Modest Mouse vogliono suonare maggiormente eclettici senza stravolgere del tutto il loro sound, ché alla soglia dei 40 gli esperimenti (soprattutto dopo anni di assenza) comportano dei rischi belli grossi. Quindi osare sì ma con circospezione. In alcuni casi – Pistol ma anche Ansel e Sugar Boats – ciò porta a risultati scadenti che vanno dal disastro all’inutilità dello sforzo, in altri casi – The Ground Walks, With Time In A Box col suo notevole basso disco-funk – funziona a dimostrazione di come in Strangers To Ourselves sia sottile il confine tra una palla in buca d’angolo dopo tre sponde ed un gol sbagliato a porta vuota. Al di là della produzione più curata della loro carriera, tra gli episodi migliori vi sono quelli in cui i Mouse fanno i Mouse, dal singolo Coyotes – dolce ballata di chitarra acustica dove torna il tema naturalista (“Mankind’s behaving like some serial killers”) – alla sorprendente Wicked Campaign passando per il breve country-pop di God Is An Indian And You’re An Asshole. In questi momenti ci si dimentica del caos e della confusione mentale che pare regnare un po’ ovunque e ci si lascia affascinare e riconquistare di volta in volta dalle sonorità dense, dalle voci straziate o dai testi immaginifici ed introspettivi, questi ultimi forse la vera costante di tutta la produzione della band di Portland.

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Il finale, così come era stato per l’inizio (e non può essere un caso), torna ad essere duro e carico, e presenta alcune delle cose migliori non solo di questo LP. A parte The Tortoise And The Tourist che è forse la più standard, The Best Room e soprattutto la conclusiva Of Course We Know costringono l’ascoltatore a rivalutare per intero il giudizio su questo lavoro ed iniziare il ciclo dei riascolti. La prima (altro singolo) è un pop-rock rilassato e solare, probabilmente la cosa più ottimistica mai uscita dalla penna di Isaac Brock, con un testo assolutamente brillante che pur nascendo dall’avvistamento di un UFO nei cieli di Phoenix nel ’97 è poi aderente alla vita di tutti i giorni (“The family living upstairs must have a fleet of a rider lawn mowers, while the novelist to my right’s convinced that every woman’s a whore”), la seconda è personalmente la mia favorita, dall’incedere lento ma costante, minacciosa come sa esserlo qualcosa sul perenne punto di esplodere; è un po’ il lato oscuro della precedente, ben confezionata ma essenziale, stratificata nei suoni e nelle voci per un addizione di elementi che di dissolve solo sulle note finali di pianoforte.

È la conclusione migliore per un album che al di là delle vicissitudini produttive riesce a suonare tutto sommato omogeneo, di lunghezza notevole ma in linea coi precedenti e che ha il difetto di muoversi praticamente dentro il recinto dei primi tre singoli estratti e da lì evolversi quasi nulla. Il che è un po’ poco per dire che Strangers To Ourselves sia una grande ritorno, ma allo stesso tempo è abbastanza per rassicurarci sul fatto che forse i Modest Mouse avevano bisogno di scrollarsi di dosso la polvere di otto anni di assenza prima di ritrovare la strada che li riporti allo status di culto indie che sono sempre stati.

 
 

vinylistics.altervista.org

 
 
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