“Triangle” in cenere nella città operaia

di Silvana Silvestri, Il Manifesto 22 novembre 2014

29 Novembre 2014

Torino Film Festival. Cento anni di distanza separano l’incendio della fabbrica di New York dal crollo di Barletta: Costanza Quatriglio mette in moto le emozioni della forza lavoro

Una fab­brica di con­fe­zioni di ini­zio secolo a New York. Il labo­ra­to­rio di maglie­ria di Bar­letta. Spe­cu­lari i disa­stri delle due fab­bri­che avve­nuti a un secolo di distanza, La Trian­gle Shirt­waist Com­pany bru­ciata nel 1911 e la palaz­zina crol­lata in Puglia nell’ottobre del 2011: in mezzo alle mace­rie i destini delle ope­raie scom­parse - la cara sorella, l’amata figlia - e le soprav­vis­sute.

Que­ste vicende da sto­ria del movi­mento ope­raio sono avvi­ci­nate in pro­gres­sione sti­li­stica ed emo­tiva da Costanza Qua­tri­glio in Trian­gle pre­sen­tato al Festi­val di Torino il 26 novem­bre.

Dall’orrore dell’evento, alla con­si­de­ra­zione del lavoro, e infine alla testi­mo­nianza diretta, ma quanto emo­zio­nante, di una ope­raia che è uscita mira­co­lo­sa­mente illesa dal crollo. Il film uti­lizza i mate­riali di reper­to­rio con un gusto déco, geo­me­trico e tale da destare lo stu­pore delle con­qui­ste di ini­zio secolo: l’elettricità, i grat­ta­cieli che si innal­za­vano ad altezze mai viste, la pro­du­zione che sfor­nava merci sem­pre più nume­rose a salari sem­pre più ridotti. Per­fino quelle bat­ta­gliere mani­fe­sta­zioni ope­raie le cui tracce tra­pe­lano a mala­pena dagli Stati Uniti.

Fil­mati d’epoca che si aprono davanti ai nostri occhi come pagine di libro, calei­do­scopi dalla rad­dop­piata sor­presa, come tro­varsi all’angolo delle ave­nues squa­drate (e all’angolo di Washing­ton ave­nue si tro­vava il palazzo in fiamme), si decom­pon­gono poi nella voce fuori campo della docu­men­ta­zione diretta, delle parole di chi visse l’incendio di quel nono piano chiuso a chiave per evi­tare che le ope­raie por­tas­sero via qual­che pez­zetto di mer­letto o si pren­des­sero pause troppo lun­ghe.

A New York la fab­brica che pro­du­ceva le Shirt­waist, le cami­cette alla moda di allora, vita stretta, pizzi e mani­che con spalle a pal­lon­cino, era stata in scio­pero da feb­braio, pre­ce­duta dal grande scio­pero dei tes­sili dei ven­ti­mila nel 2008, e quando scop­piò l’incendio, qual­cuno ebbe dubbi sulle ori­gini di quel disa­stro. È ricor­dato come il più grande inci­dente indu­striale della sto­ria della città, mori­rono 146 ope­raie, soprat­tutto immi­grate ebree del cen­tro Europa e ita­liane.

Erano durati a lungo i pic­chetti, all’epoca vie­tati, nel corso dello scio­pero. I padroni assol­da­vano i gang­ster con­tro le ope­raie che veni­vano arre­state tante volte che i giu­dici le cono­sce­vano tutte per nome. Non esi­ste­vano norme antin­cen­dio, le ton­nel­late di tes­suto acca­ta­state erano infiam­ma­bili, l’illuminazione a gas. Solo dopo l’incendio si pro­mulgò una legge che impo­neva le norme di sicu­rezza. I due pro­prie­tari che ave­vano dispo­sto di chiu­dere a chiave le ope­raie nel labo­ra­to­rio erano al piano di sopra e si sal­va­rono, e al pro­cesso che seguì furono assolti (in appello con­dan­nati a pagare 75 dol­lari a fami­glia). Una sto­ria che si ripete, ma anche una sto­ria dimen­ti­cata, risco­perta solo da poco, tanto che nean­che si cono­sce­vano tutti i nomi delle vit­time. Forza lavoro da macello.

Rac­con­tano le ope­raie di Bar­letta che nella palaz­zina si sen­ti­vano scric­chio­lii sospetti, ave­vano avver­tito anche il comune. La moglie del pro­prie­ta­rio scese giù a dire a quelli che in strada sta­vano facendo lavori di demo­li­zione di un’altra palaz­zina accanto che le mura tre­ma­vano e si sentì rispon­dere: «fate magliette? andate a fare magliette, qui ce la vediamo noi» ma quei rumori sini­stri che si sen­ti­vano erano l’annuncio di un crollo (uno dei primi che si sono sus­se­guiti negli ultimi anni nella cro­naca ita­liana, nean­che più meta­fore: crolli, esplo­sioni, smot­ta­menti, eson­da­zioni).

Nel crollo di quella palaz­zina di tre piani, cin­que furono le vit­time tra cui la figlia quat­tor­di­cenne dei tito­lari, uscita prima da scuola. Cin­que vit­time come quella Rosie Mehl, o Sara Coo­per o Con­cetta Pre­sti­fi­lippo che per­sero la vita a New York. I rac­conti sono simili, la novità di andare a lavo­rare per la prima volta, di tro­varsi insieme con le altre a pranzo e all’uscita, di ridere e rac­con­tarsi pro­blemi e gioie.

Un’operaia, Mariella Fasa­nella estratta viva dalle mace­rie dopo essere rima­sta ben sette ore sotto le mace­rie, è la testi­mone del rac­conto prima della tra­ge­dia, e poi della sua rina­scita alla vita, al lavoro. Ne viene fuori un bel­lis­simo rac­conto, la testi­mo­nianza di una donna forte e sen­si­bile. Ha rico­struito tutta la sua vita dopo la tra­ge­dia (anche lei, così come avvenne con l’avvento del cot­timo in Ame­rica, ora lavora a pezzo, più maglie con­se­gna e più gua­da­gna (dieci euro, venti al giorno? non lon­tani dai 6,7 dol­lari a set­ti­mana delle ope­raie ame­ri­cane), descrive le carat­te­ri­sti­che del suo lavoro: «non devi avere pen­sieri né pre­oc­cu­pa­zioni, per­ché devi fare un lavoro che richiede con­cen­tra­zione» fino a far diven­tare la mac­china da cucire qual­cosa di vivo con cui dia­lo­gare.

Come in uno spec­chio scor­rono le bobine delle grandi fab­bri­che ame­ri­cane, le ope­raie di ini­zio secolo altret­tanto fisse sulle loro quat­tor­dici ore di lavoro, e dall’altra parte i fili di lamé dei nuovi capi che poi fini­scono a sei euro sulle ban­ca­relle e che sal­gono e scen­dono dai mac­chi­nari con le loro lumi­no­sità ten­ta­co­lari.

Die­tro a que­sto vol­teg­giare da bal­let meca­ni­que c’è la sto­ria che si ripete, la vicenda umana del ven­te­simo secolo e oltre. Costanza Qua­tri­glio con la sapienza e la pro­fon­dità dei suoi rac­conti rie­sce a ricu­cire le vicende di un secolo di lavoro riem­piendo lo schermo di emo­zioni con il ritmo delle imma­gini e delle mac­chine: quelle delle ragazze con­tem­po­ra­nee le regala alle com­pa­gne di un tempo, tanto avranno avuto la stessa voglia di vivere e di ridere, si danno ideal­mente la mano.

 
 

Tratto da:
Il Manifesto del 22 novembre 2014

 
 
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