ReadBabyRead #209 del 25 dicembre 2014

Thomas Mann: “La morte a Venezia” (7/8)

25 Dicembre 2014


Thomas Mann
La morte a Venezia
(parte 7 di 8)


per info su F. Ventimiglia e C. Tesser:

Lettura e altri crimini
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Legge: Franco Ventimiglia

"Gustav Aschenbach o von Aschenbach, come ufficialmente suonava il suo nome dal giorno del suo cinquantesimo compleanno, in un giorno di primavera dell’anno 19…, quello che per mesi e mesi aveva mostrato al nostro continente una faccia tanto minacciosa, aveva intrapreso, da solo, una lunga passeggiata partendo da casa sua nella Prinzregentstrasse di Monaco".


Cercando l'eros nella città del mito

L'innamoramento omosessuale


Morte a Venezia è un micidiale, inquietante giocattolo. Come una di quelle palle di cristallo all'interno delle quali si vedono famosi monumenti: qui ci sono le gondole, piazza San Marco, l'Hotel des Bains, il Lido, rovesci la palla e una nuvola di neve turbina intorno a tutto, trasformando un sogno di romantica e classica bellezza in un panneggio di colpe segrete, di vergogne, di degrado spirituale, fino alla morte.

La scoperta inattesa che stravolge la vita, i valori, l'universo di Gustav von Aschenbach, il protagonista, è l'innamoramento omosessuale.

Nel 1912, quando Thomas Mann dà alle stampe Morte a Venezia, la cultura tedesca sta compiendo la sua parabola da Goethe a Winkelmann a Nietzsche, Wagner e Freud, dal neoclassicismo all'estetismo alle problematiche moderne, liberate, quasi fossero mostri zoologici, dalle gabbie dell'educazione autoritaria della borghesia.

Per Mann, che deve il suo precoce clamoroso successo letterario, i Buddenbrook, proprio alla descrizione del passaggio di quattro generazioni di una famiglia attraverso il secolo precedente e i suoi valori, la scoperta che in amore l'approdo di questa parabola può essere la passione omosessuale è sconvolgente. Mann non ha però il coraggio di offrire ai suoi lettori, dopo l'ipotesi, anche l'attuazione del peccato: il protagonista, al solo concepirla e vagheggiarla, ne muore.

Il fascino del tema, dati i tempi, è accecante: forse la ragione per cui all'autore bastano le pagine di questa lunga novella per affrontarlo e concluderlo. Ed è anche la ragione del duraturo successo del libro e dell'etichetta limitatrice che gli è stata appiccicata addosso: il primo romanzo moderno di letteratura gay.

E' un tema che non darà requie a Mann, attraverso le complesse vicende di una vita tormentata e di una carriera trionfante che fece di lui, per cinquant'anni, un artista-monumento del popolo tedesco. In superficie la fama, la ricchezza, il premio Nobel, il trionfo di ogni tradizionale virtù borghese, la moglie e i sei figli. Ma, quando si spengono le luci della ribalta, come far convivere la normalità stordente della pulsione bisessuale con la sensazione acquisita della colpa?

Lo dimostrano i ricorrenti e reticenti tentativi di descrivere il romanzo da parte dello stesso Mann.

«E' una storia di miti e di psicologia», è una sua sintesi in una lettera a Karl Kerényi, della scuola psicanalitica svizzera. E questo è certamente vero, da molti punti di vista. Per esempio: per un intellettuale borghese del Nordeuropa, il mito del Sud, del calore romantico (Venezia, addirittura, piuttosto che Roma o Ravello). O il mito del mare mediterraneo, simbolo ellenico dell'eterno mutamento e dell'eterno ritorno: in questo caso l'esangue Adriatico, che sembra prolungare all'infinito la spiaggia su cui sta giocando il virginale oggetto dell'amore.

O il mito della bellezza di ogni efebo della classicità pagana: il dio-adolescente delle sculture scoperte da Winkelmann, Hermes Psicopompo, il conduttore di anime nell'Aldilà, casto e insieme perverso per le tentazioni che suscita. Con Carl Maria Weber, in una lettera del 4 luglio 1920, Mann riconosce che il testo sublima «l'amore proibito».

Quanto alla psicologia e alla psicanalisi, Morte a Venezia è una cornucopia di richiami, tutti anch'essi sul limine del proibito: i sogni di orge che turbano l'invisibile Narratore (un "Doppelganger" di Mann), il vecchio laidamente truccato da giovane, le silenziose e monacali sorelle del bellissimo «Tadzio», la gondola come nera bara galleggiante, il volgare chitarrista, la macchina fotografica abbandonata sul tripode in spiaggia, là dove il protagonista sta morendo, simbolo dell'unico senso, la vista, a cui la concupiscenza di Aschenbach ha ceduto.

Thomas Mann, sua moglie Katia e suo fratello Heinrich nel maggio e giugno 1911 passarono alcuni giorni di vacanza prima a Brioni, in Istria, e quindi al Lido di Venezia. A Brioni lo scrittore venne raggiunto e addolorato dalla notizia della morte di Gustav Mahler, compositore che amava particolarmente, anche per averlo conosciuto di persona (e in suo onore chiamerà Gustav il protagonista del romanzo).

Mann, in quei giorni, era impegnato in uno studio su Wagner, che a Venezia aveva scritto Tristano e Isotta, capolavoro romantico di Eros e Thanatos la cui conclusione, la «Liebestod», rappresentava per Mann l'esempio supremo di una stordente estasi artistica e sensuale.

In questo momento di interna tensione creativa, sollecitata dal ricordo delle emozioni musicali, esplode l'esperienza erotica sublimata nella scrittura di Morte a Venezia. E diventa, come disse lo stesso Mann, la «trama cangiante» del romanzo.

Quel che accadde in verità si venne a sapere esattamente soltanto molti anni dopo, nel 1964, quando Mann ormai era morto. Lo rivelò al traduttore polacco del romanzo il vero «Tadzio», il barone polacco Wladislav Moes. Il barone, un tempo bellissimo adolescente (come provavano le fotografie d'epoca, che esibì), era in vacanza all'Hotel des Bains con la madre e le tre sorelle. Mann udì che lo chiamavano «Wladzio» o «Adzio», e trasformò il soprannome in «Tadzio», come se fosse da Tadeusz. Con la baronessa Moes era in vacanza una sua amica, la signora Fudakowska, il cui figlio, Jan, è, nel romanzo, il coetaneo «Jasha» che lotta con «Tadzio». Anche Jan Fudakowski ricomparve, ormai anziano, presentandosi a Luchino Visconti, impegnato a trasformare in film Morte a Venezia, a confermare con altre fotografie la testimonianza del barone. E proprio in questi giorni esce in italiano La vera storia di Tadzio, di Gilbert Adair, editore Arcana Pop, in cui sono raccolte alcune delle immagini di quell'estate di giovani turbamenti.

Che cosa era accaduto, allora? Nel racconto del barone Moes, niente. «Tadzio», che aveva scoperto soltanto quindici anni dopo la pubblicazione che un romanzo era stato scritto su di lui, ricordava solo «un vecchio» che sulla spiaggia era rimasto a guardarlo mentre lui si avvinghiava nella lotta a «Jasha».

La sconvolgente storia d'amore che aveva affascinato il mondo si era giocata tutta, in realtà, soltanto nella fantasia erotica dello scrittore. «E' stata un'esperienza lirica e personale», avrebbe poi scritto Mann in una delle sue lettere. E ancora: «Niente è inventato in "Morte a Venezia"... qualunque particolare si voglia, tutto era là, c'era soltanto bisogno di riprenderlo, a riprova della più stupefacente delle constatazioni, e cioè come lo si potesse interpretare nel mio scritto». Un'ambiguità rivelatrice di imbarazzo, come quando si vuole insistere, contro l'evidenza, che tutto è chiaro.

Il guaio, per Mann, era che la verità non poteva essere raccontata esplicitamente. Avrebbe dovuto dire non soltanto della sua attrazione per «Tadzio», ma anche di essere stato innamorato, prima di allora, di due compagni di scuola, Armin Martens e Williram Timpe, e di un pittore di tre anni più giovane di lui, Paul Ehrenberg. Così come, dopo, nel 1927, a 52 anni, si sarebbe innamorato del diciassettenne Klaus Heuser, e avanti ancora nel tempo, quando, ormai settantacinquenne, avrebbe confessato al proprio diario di provare «ancora una volta, ancora una volta amore, come non mi accadeva da 25 anni», questa volta per un giovane cameriere dell'hotel Dolder di Zurigo, Franzl Westermeyer. (Proprio come il suo idolo artistico-spirituale, Goethe, innamoratosi a 74 anni della diciassettenne Ulrike von Levetzow). E al tempo stesso avrebbe dovuto descrivere l'autorepressione moralistica che ognuno di questi innamoramenti, forse mai andati oltre le carezze, aveva dovuto subire.

L'innamorato omosessuale non può essere accettato pubblicamente dai lettori del 1912, e ancora per molti anni a venire. Per questo, colpito metaforicamente dalla peste dell'eros omosessuale (come fosse l'Aids) il personaggio Aschenbach muore di estasi rimirando il suo giovane amore.

Ci sono testi letterari semplici e testi che possono essere doppiamente apprezzati se assaporati nel contesto dell'esperienza autobiografica dell'autore e della morale del loro tempo. Morte a Venezia, di Thomas Mann, è un capolavoro esemplare di questa seconda categoria. La dedizione all'arte era, per Mann, la licenza alla più sfrenata libertà intellettuale per l'artista. Ma l'educazione a reprimere gli impulsi contrari alla dominante morale borghese, in particolare in tema di condotta sessuale, rappresentò, per tutta la sua lunga vita, un groviglio psichico di forze in contrasto, profondo e oscuro, di cui non riuscì mai a liberarsi.

Nella maggior parte dei suoi libri, e certo in Morte a Venezia, la radice autobiografica delle passioni e degli avvenimenti è pesante. Il successo istantaneo e scabroso della novella fece capire al suo autore di non essere il solo a provare le proibite sensazioni dell'omosessualità, ma al tempo stesso di doverle coprire, nella realtà quotidiana, con la maschera di un'inappuntabile normalità borghese.

Gianluigi Melega 
5 novembre 2002

Da Repubblica.it
(La biblioteca di Repubblica, Le idee)


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Luchino Visconti, con Björn Andrésen, sul set del film "Morte a Venezia", da lui diretto nel 1971, tratto dall'opera di Thomas Mann.

 
 

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