Real Estate - Atlas

di MonkeyBoy, Vinylistics

12 Marzo 2014

Per capire le radici da cui nasce "Atlas" si deve partire dall’inizio della storia dei Real Estate. Sarò brevissimo (risate). Quattro amici vivono a Ridgewood nel New Jersey, una piccola perla in uno stato che altrimenti non è esattamente il posto dove fareste crescere i vostri figli; Martin Courtney (voce e chitarra), Matt Mondanile (chitarra), Alex Bleeker (basso) e Etienne Pierre Duguay (batteria) crescono insieme, frequentano lo stesso liceo, gli stessi pomeriggi in giro in bicicletta per i block, le primavere, le estati, tutto come in un film adolescenziale degli anni ’80. Poi nel 2008 decidono di formare una band e dopo un omonimo esordio autoprodotto, ecco che nel 2011 "Days" fa il botto e viene acclamato dalla critica (un po’ meno acquistato dal pubblico) facendo conoscere i Real Estate al di fuori della East Coast e aprendo loro le porte del successo. Anche se nel frattempo Duguay è stato sostituito da Jackson Pollis (e nel 2013, durante le registrazioni di "Atlas", si aggregherà alla cumpa anche Matt Kallman alle tastiere) il trio originario rimane lo stesso e come spesso accade a chi dal nulla si trova sulla copertina delle principali testate musicali del pianeta-indie, tutto arriva come un colpo sulla nuca dato a tradimento, si rimane storditi, si lasciano indietro delle cose portandone con sé delle altre. C’è confusione e bisogno di tracciare una linea. Con questo terzo lavoro, i Real Estate in un certo senso chiudono i conti con la loro giovinezza e, forse, diventano adulti.


I primi due album erano momenti di evasione, dei piccoli rifugi paradisiaci dove lasciarsi alle spalle i problemi e le afflizioni di tutti i giorni per vivere con spensieratezza. Se "Atlas" non si allontana molto dalle cose fatte in precedenza (anche se qui onestamente tutto è migliorato, melodie produzione e messa a fuoco) il mood generale è però differente: questo è il loro album più triste e nonostante ciò la band sembra aver definito con precisione dove sia e dove voglia andare. E’ un lavoro bifronte e post moderno, che da una parte guarda al passato ed al futuro sognato in quel passato mentre dall’altra si proietta dall’oggi verso un domani di viaggi e avventurose scoperte. Piuttosto infantile, sì, ma è tutto chiaro fin dalla cover, che raffigura l’immagine (a pezzi) di un murales dell’artista polacco Stefan Knapp, presente sul muro di un magazzino abbandonato nel quartiere dove viveva Courtney quando era piccolo. Questo ‘looking backward’ è ben rappresentato da "Past Lives" e non solo nel titolo; è proprio un brano malinconico, che richiama alla mente le memorie ed i luoghi dell’infanzia in modo assai cinematografico e dove, nonostante il rilassante piano elettrico di Kallman, emerge quel latente senso di impazienza tipico di chi non vede l’ora di fuggire via. L’iniziale "Had To Hear" ha un sentimento simile, ma qui la chitarra vagamente jangle oscilla dipingendo un quadro più anni ’60, da provincia americana che agli americani così tanto piace. L’altra parola d’ordine è però ‘looking forward’ e puntuale arriva "Primitive" a porre l’enfasi sulle infinite possibilità del futuro. E’ sicuramente una delle loro migliori canzoni di sempre, che poggia su una solidissima miscela di melodia country-rock e delicata chitarra, quest’ultima tratto tipico dei Real Estate.

Perché un grande cinque alto va a Mondanile ed alla sua guitar, che a volte accompagna a volte va da sola ma che sempre arricchisce l’album con riff preziosi e raffinati, che spesso dicono molto più delle storielle agrodolci delle canzoni del gruppo, come in "How Might I Live" (scritta da Bleeker e cantata da Mondanile), una canzone d’animo blues ma dal forte accento orbisoniano, un gioiellino di nemmeno tre minuti. A fare da contrappunto alla chitarra è certamente la poetica di Courtney, i cui testi non sono mai stati così diretti, in un gioco al duetto fatto di chiamate e risposte che rende "Atlas" comunque molto leggero, a dispetto delle tematiche trattate. Il singolo di lancio, "Talking Backwards", espande il concetto, con Bleeker che si aggiunge ai due in punta di piedi dimostrando una chimica di squadra cresciuta in modo esponenziale nel tempo. E’ questa forse la canzone più completa che abbiano mai composto: più inquieta, malinconica e diretta della maggior parte del resto di questo LP. Rispetto a "Days", inoltre, qui è tutto maggiormente definito e netto. "Atlas" è stato registrato negli studi degli Wilco a Chicago e la produzione di Tom Schick (Low, Sonic Youth) ha tolto quella patina fumosa nel sound del gruppo del NJ, facendo emergere in modo cristallino le melodie. Molte delle parti strumentali – basso, chitarra, batteria – sono state registrate interamente live, così da mantenere lo spirito di 5 uomini in una stanza. Quindi, maggiore consapevolezza nei propri mezzi. Sarà stato abbastanza?

Per chi vi scrive la risposta è no, perché tutto ciò di positivo detto finora su questo lavoro non è sufficiente a trasformare un buon album in qualcosa di davvero ottimo, che poi è quello che ci si sarebbe aspettato dai Real Estate dopo tre anni di assoluto silenzio. Mancano gli spunti decisivi, il salto di qualità evidente, e forse a latitare è il coraggio di osare di più, di essere il più anticonvenzionali possibili. L’accoppiata di metà album "April’s Song" (che come già "Kinder Blumen" di "Days" è un altro episodio strumentale e ballata color seppia piuttosto insipida) e "The Bend" (una specie di soft folk-funk che solo a scriverlo mi si incrociano le dita) è esemplificativa di un certo monocromatismo diffuso, a cui non giova il tono di Courtney così sempre (o molto spesso) uguale a se stesso che a volte addirittura nasconde le tematiche più o meno forti delle canzoni scritte dal cantante. Ok, la semplicità è bene, è la chiave per raggiungere emotivamente chi ascolta così che possa apprezzare questo disco, ma non al prezzo della ripetitività. Alla fine anche le liriche parlano un po’ sempre delle stesse cose (cielo, orizzonte, marciapiedi, case di quartiere) e diventano un po’ stucchevoli, anche in considerazione del fatto che parlare di suburbs e provincia americana non è tipicamente già molto originale di suo. Quello che si rischia, allora, è un certo disorientamento che porta ad un finale piuttosto piatto, con la confusa "Navigator" a chiudere il discorso, preceduta da "Horizon" che pure parte vivace e dinamica prima che il coro la porti sui territori più convenzionali dell’indie-rock, e addio paragoni con gli Yo La Tengo. Nella seconda metà la cosa migliore è "Crime", uno dei picchi di questo buono ma nulla più terzo album dei Real Estate, dove tutto funziona magicamente ‘come sempre’ e forse sta proprio in quelle due parole il grande limite di "Atlas".

A conti fatti di cose da apprezzare ce ne sono, non per ultimo il fatto che Courtney cerchi di resistere alla tentazione di cadere nella mera nostalgia più zuccherosa, rischio che in effetti era molto probabile. Ma, ripeto, per me non è abbastanza per essere entusiasta (ed in giro ho visto molto entusiasmo, soprattutto dall’altra parte dell’oceano), per dire che i Real Estate sono davvero diventati adulti. Suonano quello che hanno sempre suonato, ma meglio; il titolo, "Atlas" (che significa atlante), lasciava presagire un viaggio a ritroso verso le radici della band dove a guidarci sarebbero stati i ricordi dei tre amiz, per poi spiccare il volo verso la maturità, verso quell’orizzonte tanto agognato da adolescenti. Ebbene quel viaggio non è completo (è solo abbozzato pur in modo sapiente) definendo questo album più un momento di transizione che un vero e proprio punto d’arrivo.

(Tramite Vinylistics)

 
 

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