La fine del mondo e il paese delle meraviglie

Intervista a Tempelhof

7 Marzo 2014

Questo non è quel famoso romanzo ma di esso potrebbe benissimo esserne la colonna sonora, non siamo in un immaginato oriente ma nel pieno della nebbiosa ed affascinante Bassa Padana, non ci sono creature fantastiche a sovvertire il senso del reale ma macchine analogiche ed elettronica viscerale. Gli artefici della magica rappresentazione si chiamano Tempelhof, duo di Mantova che si sta imponendo in Italia e all'estero come artefice di innovazione sonora in ambito elettronico.

 

"We Were Not There For The Beginning, We Won't Be There For The End", avete poi seguito alla lettera quanto proclamato nel titolo del vostro primo lavoro?

 Beh, oggi siamo qui a parlare con te, quindi, se il titolo era, in qualche modo, un esercizio divinatorio, direi che la fine è (ancora) lontana! Noi, comunque, non la vedremo, ce ne andremo prima…

 Quattro anni tra un disco e l'altro: periodo trascorso guardando avanti verso un possibile ignoto da scoprire o ricomposizione e 'messa a norma' di suoni impossibili da abbandonare?

 Entrambe le cose, effettivamente. Ci piace pensare che Frozen Dancers rappresenti una sorta di istantanea di quello che siamo oggi. Lo abbiamo detto più volte, ma ne siamo sempre più convinti: l’album rappresenta un passo avanti e uno indietro allo stesso tempo. Quattro anni sono un tempo lunghissimo che una band non dovrebbe permettersi se ha alle spalle un solo disco. Ma, per quanto ci riguarda, abbiamo speso tutto questo tempo cercando di emanciparci, in parte da un suono che sentivamo nostro, ormai, solo parzialmente. Dopo “We were not there…” abbiamo sentito la necessità di azzerare per un attimo ciò che eravamo per sperimentare qualcosa di nuovo a livello sonoro e compositivo. L’incontro con Hell Yeah e la serie di remix che ci ha commissionato ha fatto il resto. Per un periodo abbastanza lungo abbiamo dato un giro in avanti ai bpm sui quali ci eravamo mossi fino a quel momento. Abbiamo fornito una nostra versione dei fatti in ambito dancefloor, sfiorandolo, senza toccarlo mai veramente, se non in rari casi. Con i due ep siamo andati un po’ in giro, musicalmente parlando, quando, invece, si è trattato di pensare a un lavoro sulla lunga distanza, abbiamo compiuto un passo indietro, cercando di ritornare parzialmente alle origini, con un bagaglio di esperienza decisamente superiore. Diciamo che i Tempelhof che sono tornati da un viaggio lungo quattro anni, non sono più gli stessi che sono partiti.

 “Frozen Dancers”: come è stato costruito, c'è una sorta di cambiamento sostanziale rispetto al primo lavoro o è la sua continuazione?

 Credo rappresenti la naturale evoluzione del nostro suono. E’ un disco nato per essere ascoltato, scoperto lentamente. Credo sia più a fuoco e più ricco di sfumature, influenze elementi. Siamo ancora molto legati al nostro disco d’esordio, seppur con le ingenuità che un debutto si porta dietro, ma Frozen Dancers è il presente, è quello che oggi ci somiglia di più, o meglio, quello che ci somigliava di più qualche mese fa.

 Quanto conta la componente immaginaria nelle vostre composizioni?

 Conta moltissimo, anche se, probabilmente agisce a livello inconscio. Non componiamo per immagini, ma per suggestioni che si traducono facilmente in immagini. E questa parte tocca a Sorry Boy, il “Terzo Tempelhof” che all’inizio ci ha proposto di musicare immagini e che oggi fa l’esatto contrario: visualizza la nostra musica.


Nel vostro andare per musica ci si accorge che esistono due mondi, continuamente in contatto tra loro. Una cosa che si nota molto ascoltando l'ultimo album e, ovviamente, seguendo la vostra attività di remixaggio. La melodia vs il beat, spiegatemi questa apparente contraddizione.

 La melodia ce la portiamo dentro, è connaturata al progetto ed è un qualcosa al quale tendiamo piuttosto naturalmente. Il beat è materia grezza da plasmare, distorcere, spezzare. A volte la prima esalta il secondo, altre volte accade l’esatto contrario. Non credo esista una contraddizione in questo rapporto e, se esiste è, come dici tu, solamente apparente.

Venendo alla vostra attività legata all'aspetto dance, cosa vi spinge a produrre singoli o remixare tracce ad elevato numero di battute. Che tipo di suoni riuscite a far vostri quando 'entrate in pista'?

A dire la verità, il dancefloor lo abbiamo “sfiorato” in qualche occasione, ma non ci siamo mai entrati veramente. Ci piace alzare il tempo così come ci piace rallentarlo. Però, quando andiamo up-tempo lo facciamo portando noi stessi in pista. Il dancefloor è un territorio dell’elettronica che ci diverte e singoli come City Airport o Dunga, con relativi remix di Fabrizio Mammarella e Margot, ci hanno aiutato ad arrivare all’attenzione di gente che normalmente non frequenta una certa elettronica d’ascolto e che in seguito è venuta a curiosare nella nostra produzione, apprezzandola. 

 Che succede nei territori dance, ultimamente? Esistono nomi conosciuti solo a chi frequenta quei suoni, un mondo a parte anche se parecchio frequentato.

 La dance è un territorio sconfinato, sfaccettato che si rigenera di continuo, producendo talenti destinati a durare e fenomeni di passaggio che non arrivano al secondo singolo. Tutto ciò che ti fa muovere può essere considerato “dance”, difficile dire di più. Però posso citarti gli ultimi dischi che ha comprato nei quali suona Luciano (Ermondi...l'altro Tempelhof) aka Dj Cash: The Burrell Brothers, "The Nu Groove Years part. 1, 1988-1992”, Rekid, “Era EP”, “Domina”, Maurizio mix, Throbbing Gristle, “Hot on the Heels of Love (Carl Craig re-version).

Il vostro è un live multimediale, riuscireste a descriverlo per chi non ha mai avuto il piacere di assistervi?

 Ci piace definirlo una sorta di esperienza audio-video nella quale entrambi gli elementi hanno pari dignità e importanza. Dal vivo suoniamo proiettando un mix di filmati che Sorry Boy scova nei suoi polverosi archivi e che riedita in un continuum straordinariamente onirico. A noi piace stare in ombra e lasciare che suoni e immagini si prendano la scena. Per noi è importantissimo divertirci sul palco, per questo ci prendiamo qualche rischio, cercando di proporre uno show il più possibile suonato.



Una domanda che vi avranno fatto in molti: quali diversità trova un artista nel proporsi in Italia piuttosto che all'estero?

 Banalmente, all’estero è tutto molto easy, pochi fronzoli e molta sostanza. Prima viene la musica, poi il resto. C’è grande professionalità in tutti gli ambiti, zero o, quasi, improvvisazione. Senza voler generalizzare, è incredibile come l’Italia, invece, spesso non riesca a tenere fuori i suoi lati deteriori neanche dall’underground musicale.

 I Tempelhof appartengono a pieno titolo alla scena elettronica italiana, come la vedete questa realtà... esiste secondo voi?

 Se per “scena” intendi artisti, label e promoter che si muovono nello stesso territorio sonoro, direi che esistono realtà molto interessanti. Quello che manca sono principalmente le strutture, i posti dove suonare live, che da sempre sono luogo d’incontro e scambio d’idee, dove nascono progetti paralleli e ci si sostiene a vicenda.

 Esistono varie sfumature quando si cita il termine 'elettronico': da una parte il suono di ricerca e dall'altra un suono che usa anche le macchine ma si rivolge ad un pubblico diverso. Voi che ne pensate di questa dicotomia, pensate questi suoni potranno mai avere 'pari opportunità' e riconoscimento come avviene, in parte, all'estero?

 L’esperienza ci dice che spesso per avere pienamente riscontro in patria ci devi entrare dall’esterno, o meglio, dall’estero. E’ un po’ provinciale se vuoi, ma è esattamente quello che accade. Se sei abbastanza bravo e fortunato da avere un qualsiasi riscontro fuori, allora miracolosamente qualcuno inizia ad accorgersi di te… Riguardo alla musica, cosiddetta “di ricerca”, è chiaro che essendo da noi la nicchia molto, molto ridotta a livello numerico, alcuni artisti non riescono a ottenere l’attenzione che meritano, se non in occasioni speciali come i festival. Però, di recente abbiamo visto live i Demdike Stare, gente poco avvezza ai compromessi e, in entrambi i casi, la sala era strapiena. Questa è senz’altro una buona notizia. Poi, esiste il lato elettronico più legato al dancefloor, che in alcuni fortunati casi è ricerca applicata al ballo e non deve necessariamente rivolgersi a un pubblico completamente differente da quello più avvezzo all’elettronica “colta”, anzi. 

Tempelhof diretti verso quale futuro?

 Il futuro prossimo è un nuovo album scritto con Gigi Masin, padre dell’ambient di casa nostra e rispettatissimo all’estero, che uscirà prima dell’estate e del quale siamo molto orgogliosi.

 
 

Discografia:

- We Were Not There For The Beginning, We Won't Be There For The End (Distraction, 2010)   

- You K  Ep (Hell Yeah, 2012)

- Frozen Dancers (Hell Yeah, 2013)

Link utili:

www.tempelhof.it

 
 

    video

  • Tempelhof live in studio
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