“Non siamo maturi, siamo vecchi” Joel Coen - “E questo non è bello, è molto triste” Ethan Coen

Ulisse al Greenwich Village

Recensione del film "A Proposito di Davis"

19 Febbraio 2014

Non sono pochi quelli che hanno storto il naso al termine della visone di A proposito di Davis, ultimo lavoro dei fratelli Coen. Troppo insigne la loro statura di registi di culto e troppo piccolo il loro film. Eccesso di minimalismo e di sottrazione, confezione convenzionale e priva di folgorazioni, personaggi statici e mai del tutto risolti, lievità che scivola nella piattezza o, più prosaicamente, “una gigantesca cagata” malgrado il Gran Prix della Giuria spielberghiana a Cannes 2013. Dall’altra parte non sono mancati gli estimatori, anche blasonati, pronti a coglierne i tormenti autoriali e decisi a classificarlo tra i capolavori dei fratelli del Minnesota. Forse è possibile partire da qui, visto che nello stesso Stato, a Duluth, ha avuto i natali anche Robert Allen Zimmerman, meglio conosciuto con il nome di Bob Dylan. Che nel ’61 - epoca del film - ventenne arrivato a New York per conoscere il mitico Woody Guthrie, fa la sua comparsa nei locali del Village.

E’ possibile così confrontare il manifesto del film con la copertina di “The Freewhelin’ Bob Dylan”, seconda raccolta di Dylan (1963), la prima scritta interamente da lui. Sembra la stessa strada del Greenwich dalla tonalità appena desaturata, con le Pakard anni ’50 e le scale antincendio a vista. Anche Bob ha una giacchetta troppo leggera, c’è la neve per terra. Al suo braccio sinistro si aggrappa Suze Rotolo, la sua fidanzata del momento. Lo stesso braccio di Davis sorregge invece un gatto fulvo: accantonare questo particolare. Il titolo di Dylan può essere tradotto grosso modo come “Bob Dylan a ruota libera” e lo stesso possiamo dire del nostro protagonista: Davis a ruota libera attraverso una settimana tra il Village e Chicago nel tentativo di mettere a valore il suo talento di giovane folk singer in cerca di affermazione e riproduzione di reddito. Ammesso che il talento ci sia. In realtà non succede un granché da quando si presenta cantando “Hang Me, Oh Hang Me” al Gaslight Café: letti e divani in casa di amici o parenti, audizioni sfortunate, improbabili compagni di viaggio (grande e wellesiano John Goodman), cinici impresari (I don’t see a lot of money here), terzetti simulacro di Peter Paul and Mary, ex fidanzate rancorose incazzate nere. Giustamente, pare.

Effettivamente Davis non ispira particolare affetto, potrebbe essere anche un po’ stronzo. Motivo verosimile per cui un signore piuttosto grosso, in apertura di film, gli rifila una energica quanto incomprensibile pestata. Questo sposta la nostra simpatia verso il gatto, che deve attraversare una vera e propria odissea: di proprietà di amici provvisoriamente ospitanti viene smarrito a più riprese, scambiato con un altro di sesso diverso, dato definitivamente per disperso, salvo ritrovare da solo la strada di casa. Sarà per questo che - scopriamo alla fine -  si chiama Ulisse. La sua presenza ci fa transitare (almeno chi ha un po’di primavere sulla schiena) attraverso Colazione da Tiffany annotando la stessa ambientazione, lo stesso anno, lo stesso gatto senza nome (Ms. Golightly lo chiamava Cat). Riducendo la necessità di conferire per forza valenza epica al tragitto di Davis.

Il quale è in fondo anche lui un senza nome. Pur essendo la sua storia ispirata a quella reale di Dave Van Ronk, stella minore del firmamento folk, di sé non lascerà traccia. Nessuna ciotola di latte caldo alla fine della sua odissea, ma di nuovo quel grosso signore dalla mano pesante: la circolarità dei Coen ci riporta alla casella di partenza, questa volta facendoci comprendere la ragione delle legnate, accentuando la percezione del carattere del protagonista, svelando la vera geometria del film, la sua essenza di piccola storia. Dove nulla è destinato a evolversi positivamente: nemmeno il ripiego verso un lavoro “ordinario” riesce ad andare a buon fine, nessun happy end è concepibile. Perché il talento non si costruisce, ce lo ricorda in sottofinale un profilo che si staglia su un piccolo palco fumoso. Mentre la sua inconfondibile voce nasale canta un brano che si chiama “Farewell”.

 
 

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Fratelli Coen

 
 
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