Actress - Ghettoville

di MonkeyBoy, Vinylistics

4 Febbraio 2014

This is the end. A meno di clamorosi ripensamenti, questo sarà il quarto e ultimo album di Darren J. Cunningham altrimenti molto noto con lo pseudonimo di Actress. Nella nota di accompagnamento a Ghettoville si legge un messaggio dai toni cupi ma dal contenuto piuttosto chiaro che annuncia “la conclusione sbiadita e nera dell’immagine di Actress”, con una frase finale che è tutto un programma: “RIP Music 2014”. Che Cunningham sia ossessionato dall’idea della morte non è certo un mistero, il suo ultimo full-length datato 2012 si intitola (tenetevi) R.I.P. non a caso, e forse nella sua mente geniale e caotica avrebbe dovuto essere il passo conclusivo della sua breve e folgorante carriera. Invece arriva questo Ghettoville che, per ammissione dello stesso musicista londinese, è il seguito ideale del suo debutto Hazyville del 2008; ciò che lega i due lavori è quella che lui stesso definisce “estetica aspra” che in effetti fa da collante tra i due album.

Dunque tutto inizia (a parte l’EP No Tricks del 2004) cinque anni fa con Hazyville, uscito (su etichetta Werkdiscs co-fondata dallo stesso Cunningham) mentre l’economia globale stava per crollare come mai prima di allora, la chillwave stava invece per nascere e la drone music americana aveva il suo momento di gloria. Nel tempo questi elementi sarebbero confluiti in quella che è stata definita ‘hipster house’, che già dal nome potete capire come non ne possa uscire nulla di buono: musica elettronica per poverinos, con un’inclinazione inaspettata al facile svenimento, registrazioni decisamente annacquate di techno mischiata a deep house, prontamente derisa e accusata di produrre musica di scarso livello, totalmente disinteressata (o disimpegnata, se volete) alla storia ed ai costumi della dance. Insomma, un MACCOSA gigante. In questo contesto immaginatevi l’uscita di un album che non ha la minima intenzione di accodarsi in questo trend, ma che anzi è assai più oscuro, teso, tagliente, più complesso e in definitiva più consapevole dei suoi legami con il dubstep e la techno. Col senno di poi ha perfettamente senso un esordio in un panorama di genere come quello, molto ma molto più statico e privo di idee. Arriva Actress e sembra il Mar Rosso che si apre davanti a Mosé. Nel 2010 sarà la volta del più arioso Splazsh, e nel 2012 del già citato R.I.P., che esplora i ritmi sottili tra techno, elettronica, 2-step à la Burial, e sub-bass e li trascina in un ancora inesplorato aldilà. Un album grandioso. Assodato poi, che in quel disco si meditava di reincarnazione, poesia di John Milton e – in maniera davvero giocosa – della natura della morte stessa, be’ è facile capire perché Darren J. Cunningham non sia il vostro artista techno nella media.

Dall’esordio in poi, per Actress è stato tutto un destrutturare, un trovare le sfumature tra il grigio ed il nero fino a sbiadire le immagini completamente, passando da una cover schematica e geometrica come quella di Hazyville, ad una totalmente scomposta e trascesa come quella di Ghettoville. Take it or leave it. E’ un lavoro i cui le convenzioni del genere dance vengono separate per poi essere riunite in un groviglio assolutamente tetro e misteriosamente attraente. Si apre – mostrando il punto più basso e decadente – con Forgiven, un agonizzante loop di suoni metallici, un quadro incolore e minimalista che setta il tono per quello che verrà: 70 minuti di cupi sintetizzatori, batterie peste e ammaccate, con un onnipresente noise che più glaciale non si può. Si dissolve nella successiva Street Corp, dove tenui e vagamente dissonanti synth si muovono svogliatamente sullo sfondo, ma senza dare mai l’impressione di costruire un arco o una struttura definita, concreta. Da questo incipit è chiara una cosa: dimenticatevi pezzi che svettino sugli altri; qui è più una successione infinita di momenti e di sensazioni, ognuno più profondo e viscerale del precedente.

Corner e Rims sono techno col freno a mano tirato, adornate con sospiri, bassi carichi e tremolanti beat di stampo hip-hop che ne fanno due brani di ostica dancefloor, catchy nonostante loro stessi. Ghettoville è fin troppo solitario e autoreferenziale, una musica da tre del mattino sotto la luce flebile dei lampioni di strada, quando si torna da una serata andata troppo per le lunghe per essere ancora piacevole e i bagliori e i rumori urbani si mischiano con le ombre sul pavimento e dentro di noi. Contagious, d’altra parte, ci fa seriamente chiedere se possiamo ancora chiamare techno questo tipo di suoni. E’ un pezzaccio singolarmente caldo e confuso – come si dovrebbe giustamente evincere dal titolo – con una batteria metallica e pesante, palate di tastiere melliflue ed una voce sofferente che emerge intervallando l’incedere del noise, un dissanguarsi lento ma costante. Poco prima della metà si incontra il momento forse più ‘ottimistico’ dell’album, con Birdcage – che ricorda effettivamente qualcosa dei Daft Punk Homework-era – e la scintillante Our che invece rimanda a Burial.

Tracciando una linea all’indietro dalla fine all’inizio della carriera di Actress, ci sono ben pochi modi di descrivere il lavoro di Cunningham se non come un palese rifiuto di piegarsi ai canoni della dancefloor pura e dura. L’influenza dei vari sottogeneri dance è sì vitale in lui, ma è altrettanto chiaro come egli non senta alcun obbligo o riverenza verso quelle influenze. Gaze, costruita attorno ad un semplice quanto ipnotico loop, è la cosa più vicina ad essere ballabile dell’intero LP, ci trascina in un (quasi) upbeat da club jam con reminiscenze della disco di Philadelphia e della piano house anni ’90. Detto questo, il fatto che la song più prossima ad una vera e propria hit sia messa un po’ a caso al centro dei 16 brani di Ghettoville ci fa capire quanto Actress sia avulso da certe logiche, benché metodico e lucido in ogni cosa che fa. Altrove, come in Skyline e Don’t si manifesta qualche traccia di umanità, in mezzo alla meccanicità più fredda di brani come Time. Perché se una cosa è chiara, è che Actress è sempre stato un mondo chiuso in se stesso, dove Cunningham ha col tempo assimilato la techno di Detroit, la house dei ghetti (!) di Chicago ed il rap escludendosi dal mondo e rintanandosi tra le mura del suo studio, e qui forse abbiamo la limpida consapevolezza del perché di questo disco.

Sul finale, il trittico Rap, Frontline e Rule apre a qualcosa che forse sarebbe potuto e dovuto arrivare un po’ prima. Sono tre brani fantastici, dove si mischiano il robotico R’n’B del primo, la minimal techno della seconda ed il rap distorto dell’ultima, che emerge pesante ed industrial dalla melassa di synth e melodie artificiali. Arrivati alla fine si rimpiange la mancanza di più momenti come questi, dove gli sprazzi di genialità del musicista inglese erano soliti trafiggere il petto come una lama, così cristallini e consapevoli nella loro assoluta diversità. La musica di Cunningham ha sempre offerto una componente decisiva di interattività, dando l’opportunità all’ascoltatore di scartare gli orpelli per arrivare alle origini del suo sound. Ghettoville è di piombo, le canzoni qui rifiutano quel tipo di interazione e si è costretti a prenderle così come ci dice lo stesso Cunningham: “viviamo in un mondo provvisorio, malato e questo [disco] è come suona un mondo drogato e transitorio”.

Forse alla fine ci si stanca di affrontare la durezza delle cose e ci si abbandona al proprio moment of surrender – avendo dato tutto quello che si poteva dare e rimanendo senza forze, stremati e vuoti – ma per come è stato e per quanto è durato è valsa la pena ascoltare il suono del mondo attraverso la conchiglia di Actress.

 
 

Tratto da:
vinylistics.altervista.org

Links utili:
Werkdiscs official

Actress su Wikipedia

 
 
loading... loading...