Red+White&Green, Atto IV - DID

di MonkeyBoy, Vinylistics

19 Dicembre 2013

Può essere il destino oppure no, fatto sta che proprio nell’ultimo appuntamento sugli Italians che più ci piacciono si parla della band più indecifrabile e dal futuro maggiormente aperto fra quelle di cui ho scritto. Cioè i DID.

Siamo agli inizi degli anni ’00 e quattro giovanissimi torinesi pieni d’amore per i tempi che furono formano una band dal nome così corto che, pensano, emergerebbe con grande facilità in ogni cartellone di qualsiasi festival. Un nome breve e di impatto, per un gruppo che guarda al punk-funk e alla dance come primarie fonti di ispirazione, all’interno di un panorama comunque molto fertile come quello piemontese. Guido Savini (voce, synth), Giancarlo Maresca (basso, percussioni), Andrea Tirone (chitarra, percussioni) e Andrea Prato (batteria) fanno passare un tempo modesto, giusto otto anni, prima di condividere col resto dell’umanità alcune delle loro produzioni, e nel 2008 esce una web release intitolata Ask U2 tramite la net label Kirsten’s Postcards. E’ un EP che contiene solo 4 tracce, tra cui la title track che, leggenda vuole, sia nata una volta durante un dj-set, quando una ragazza si avvicina al mixer e chiede di mettere su gli U2, band amata in gioventù da parte della band ma lontana dai suoni riproposti dai torinesi; ovviamente sorrisone di circostanza e niente da fare, perché gli U2 non erano nella borsa dei cd, ma la genesi diventa mito.

Passa solo un anno e i DID fanno uscire un secondo EP questa volta per Circolo Forestieri Label, intitolato Time For Shopping sempre composto da 4 canzoni tra cui la stessa title track e Ask U2 ma che va sold out in pochi mesi e concentra sulla band l’attenzione degli addetti ai lavori, permette loro di suonare nei club più cool d’Italia e partecipare ad alcuni festival tra cui il Traffic, il MI AMI e Indierocket. Mentre se ne bevonounpaio tra un concerto e l’altro Foolica Records non si fa scappare l’occasione e li mette sotto contratto, pubblicando immediatamente un altro EP con i migliori remix di Time For Shopping selezionati con un concorso sul sito dell’etichetta di Mantova. Ad ottobre 2009 ormai è il momento per il debutto serio e dunque Kumar Solarium viene dato alla luce come un primogenito maschio a Buckingham Palace. Le recensioni sono molto positive e non fanno che confermare quanto di buono si era già intravisto dai lavori precedenti, dal canto suo l’album sprizza energia da ogni dove, fonde insieme generi diversi senza per questo risultare frammentato e ci consegna un giovane gruppo italiano che guarda ai Liars così come ai Gang Of Four miscelando sapientemente elettronica, punk-funk e un’attitudine naturale alle ritmiche da dancefloor.

Sono 11 tracce impossibili da non ballare, molto catchy e molto furbe, a partire da Hello Hello una sorta di funk techno fatto di percussioni tribali, riff pungenti e una melodia notevole, che setta il groove di un po’ tutto l’album. A seguire c’è la già arcinota Time For Shopping ad elevare il tasso adrenalinico e qualitativo, dove si capisce che questi DID con le melodie ci sanno fare di brutto, quando vogliono sanno usare basso, chitarra e batteria nel modo più accattivante possibile, ricordando vagamente le cose dei loro concittadini Disco Drive. Oltre alla ottima Solarium che chiude una triade iniziale davvero micidiale, altrove svetta l’altra conosciutissima, quella Ask U2 dalle origini mitologiche e dall’anima ancora più pop se paragonata al resto di Kumar Solarium. Sono canzoni solo all’apparenza facili e spensierate, perché a guardar bene parlano di spersonalizzazione, di divertimento come prodotto di mercato - vendibile e serializzabile - di dipendenza dal mainstream, tradimenti e rotture dal mondo reale, il tutto trattato però con una vena ironica spiazzante. Degne di nota sono ancora la strumentale Breakdance – vero e proprio momento a metà tra shoegaze, psichedelia e funk – e la bella Crazy Yes dal gusto molto indie e dalla resa un po’ più lo-fi delle altre. Dunque, un esordio semplice ma immediato, che echeggia molto di anni’80 consegnandoci una band giovane ma già assai matura, in grado di andare facile facile oltre confine, coi loro K-Way gialli ed il loro ormai ribattezzato ‘yellow punk-funk’.

Il 2010 è appunto l’anno della notorietà internazionale, dall’Inghilterra arrivano le prime novità interessanti dato che a Londra la band torinese gira il video per Hello Hello sotto la regia di Roman Rappak (Hatchmam Social, Kasms) e la stessa song esce poi come singolo accompagnata dal remix di Another Pusher ad opera niente meno che dei These New Puritans. Ancora nell’anno dei mondiali sudafricani la canadese Saboteur Records decide di distribuire Kumar Solarium ovunque nel mondo ad eccezione del Giappone, folle paese in cui ci pensa la Flake Records. Il tempo passa e a sentire i 4 della motor-city italiana, le etichette messe addosso alla band dalla critica nostrana e non, cominciano ad andare un po’strette; ‘elettro-rock’ fa venire i brividi solo a pronunciarlo - loro spiegano di non sopportare né il termine ‘rock’ né la parola ‘elettro’ - e ‘punk-funk’ è ormai troppo inflazionato e abusato per continuare ad essere credibile.

Sarà anche per questo che a tre anni dall’esordio in full-lenght, il 20 dicembre del 2011 viene pubblicato il nuovo EP dei DID, Belong To You ed è a questo punto che cominciano a cambiare le cose. Perché più che un mini album di (indovinate?) 4 brani, è una vera e propria svolta nel sound della band; sotto la produzione di Sal P dei Liquid Liquid finalmente si trascende dall’ormai tedioso punk-funk più puro e si deriva nella melodica pop, ma che non suona assolutamente come nessun altro pop che possiate sentire alle nostre latitudini. Qualcuno parla di tropical-pop, tutti hanno ovviamente una nuova etichetta da affibbiare, ma con 11 canzoni che il gruppo dichiara di avere già pronte per un nuovo LP da pubblicare, l’esercizio della mera classificazione rischia di far fare a tutti la figura dei fessi.

Siamo nel 2013, Guido Savini e Andrea Prato (ormai rimasti un duo) si ritrovano con sei buoni pezzi e pensano di scriverne altri quattro per completare un secondo album. I pezzi più vecchi sono di quattro anni prima e non si sa che farne, poi Andrea Tirone torna un mese a Torino, incontra gli altri due e, sotto la pressione della Foolica, si decide di provare a scrivere il benedetto sophomore. E’ tutto piuttosto incasinato, ognuno ha registrato per conto suo nemmeno fosse il White Album, alcune chitarre le fa Tirone da Londra, alcune voci Savini individualmente, Prato si chiude a registrare le batterie bella cantina dei suoi, coi salami appesi al soffitto; infine si spostano in Sicilia in tour e lì finiscono il lavoro, mixando tutta questa enorme quantità di materiale tra hard disk e computer, cercando le take una per una e integrando con registrazioni fatte con l’iPhone (sic). Il risultato esce a novembre ed è Bad Boys, un disco che suona DID già dalla gestazione, un flusso creativo apparentemente sconnesso e step by step ma che consegna un prodotto che miscela pop e dance come fosse la cosa più naturale del mondo, dove permane un background punk-funk ma che non ha paura di esplorare anche territori rischiosi, come l’hip hop.

Forse il titolo vuole levare per sempre l’immagine dei fighetti col K-way che la band ha sempre odiato tanto, fatto sta che già dall’iniziale You Read Me e dal suo afrobeat aggressivo, il cambiamento è notevole, dalle ricercatezze vocali – autotune + delay + distorsori – a quelle sonore, ancora più contaminate che in passato. You Read Me e Skills sono state le prime due canzoni registrate per questo LP e le accomunano le stesse caratteristiche e la stessa attitudine mid-tempo. La prima parte dell’album si muove sui binari più classici dei DID, dove fanno bella mostra di sé il dream pop psichedelico della clamorosa Second Chance, il già citato tropical-pop di Belong To You e le atmosfere felliniane di Mastroianni Keep It Real, dove tra beat trip hop e atmosfere da dance club fa la sua comparsa il vocoder. Poi arriva il primo interludio, a cui seguono i brani forse più rappresentativi dell’album, MVP e Coin Slot. Entrambe a 80 bpm – sembrano derivare dagli ultimi lavori di Kanye West, tanto sono contaminate e hip hop allo stesso tempo – presentano voci, controvoci, sovraincisioni e sample che definiscono un stile maggiormente urbano e sporco, rispetto all’inizio del disco. E’ puro pop non convenzionale che, dopo un secondo interludio grottesco (un dialogo tra Woody Allen e Jason Biggs in ‘Anything Else’), termina in piena accelerazione sonora con la band che gioca per addizione a mettere suoni su suoni tra Voci Pazze (notevolissima) e la conclusiva All We Desire Slightly Happens, una sorta di ballad che svanisce eterea e ci consegna una album eterogeneo, maturo, con chitarre piene di delay, voci piene di effetti, funk ed elettronica, punk e pop.

A febbraio 2014 partirà un tour europeo con i Breton e nei live i due superstiti DID verranno affiancati da un nuovo chitarrista siciliano, tanto per non smentirsi e continuare sulla via della contaminazione anche territoriale. Come andrà avanti la storia di questa band, penso che nessuno possa dirlo con esattezza; dopo un lavoro come Bad Boys i torinesi potranno davvero fare quello che vogliono, ma già quello che hanno fatto per la musica italiana è tantissimo: hanno gettato dei semi, hanno dato a tutti qualcosa di cui parlare, qualcosa che nasce in Italia per germogliare fuori da essa, facendo crescere anche un po’ noi che li ascoltiamo.

 
 

Tratto da:
vinylistics.altervista.org

Links utili:
DID su Facebook
www.did-badboys.com

 
 
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